Ne uccide più la penna che la spada, per non parlare di Chuck Norris
Tra la fine di marzo e l’inizio di aprile mi sono ritrovato spesso a parlare, con altri comici ma anche con persone non del settore, dello schiaffo che Will Smith ha dato a Chris Rock durante la serata degli Oscar dopo che quest’ultimo aveva scherzato sul fatto che Jada Pinkett Smith, moglie dell’attore, non ha i capelli. E’ stato uno di quegli eventi che monopolizzano il dibattito pubblico (certo, per lasciare spazio a nuovi trending topics nel giro di pochi giorni) grazie alla fama dei protagonisti e al contesto mediatico in cui si svolgono ma anche perché vanno a toccare alcune corde per le quali il mondo (o meglio, le nostre bolle sociali) sono particolarmente sensibili.
Moltissimi comedian hanno detto la loro, sentendosi giustamente coinvolti da un episodio che metteva in discussione il rapporto col pubblico e quello (mai pacificato) tra comicità, critica e offesa. Tra gli altri, ci hanno fatto un servizio interessante Le Iene, nel quale vengono intervistati diversi comici con opinioni differenti.
Nel mio piccolo, provo anche io a scriverne. Le riflessioni che espongo qui sono debitrici non solo della conversazione che ho avuto su Facebook con numerosi utenti, ma anche dei tanti post a tema scritti da altri: segnalo ad esempio il contributo di Daniele Fabbri e quello di Giuseppe Ciuffreda.
Penso che la discussione possa avere diversi livelli, dei quali però il primo è il più importante, perché senza di esso tutti gli altri assumono significati differenti. Intendo dire che, in maniera preliminare, bisogna convenire sul fatto che reagire con la violenza fisica è sbagliato. Possiamo essere d’accordo con Roxane Gay che sul New York Times sostiene che in alcuni casi si ha il diritto di rispondere ad una battuta, ma va specificato che tra le risposte accettabili non c’è il passare alle mani. Escludendo le volte in cui l’uso della forza può essere giustificato (tutte le varianti, individuali e collettive, nelle quali ci si difende e si respinge un aggressione), vivere in una società significa proprio essere tutelati dalle minacce che possono arrivare dagli altri. Se non si accetta questo assunto di base, ogni altro ragionamento (che in sé potrebbe avere valore e che proverò a snocciolare di seguito) è sospetto: discutere sull’opportunità della battuta di Chris Rock può essere fatto solo se si sgombra il campo dall’ipotesi che un’uscita scorretta possa in qualche modo autorizzare un pugno; riflettere sulla violenza verbale ha senso se si è in grado di distinguerla da quella fisica; provare a comprendere il gesto istintivo di Will Smith è un sano esercizio di empatia a patto che la comprensione non elimini il giudizio negativo su ciò che ha fatto; ridimensionare la portata di quel ceffone è ragionevole facendolo però rimanere nell’ambito dei comportamenti esecrabili.
Fatta questa doverosa premessa, passare ai livelli successivi diventa un modo per approfondire la questione riconoscendo, sotto il terreno condiviso del rifiuto della violenza, una complessità che sarebbe superficiale ignorare.
Il dibattito sul senso e sulla qualità della battuta di Rock, ad esempio, permette di affrontare un tema fondamentale. Se ho trovato poco interessante la discussione sul joke specifico, sia perché non sarà certo la punchline che verrà ricordata nel vasto repertorio di uno dei migliori stand-up comedian di tutti i tempi sia perché non sono riuscito a sapere con certezza se lui fosse a conoscenza della malattia di Jada Pinkett Smith, mi sembra invece centrale la domanda più generale che soggiace all’episodio: non è forse ora di farla finita con un certo tipo di comicità? Mi riferisco all’umorismo basato sull’aspetto fisico della vittima, sui suoi connotati razziali, sugli stereotipi attribuiti ad una comunità e sull’uso dello slur. Mi sembra che purtroppo non si stiano facendo passi avanti, bloccati su posizioni polarizzate che, per portare acqua al proprio mulino, mischiano le cose: Bill Maher ha ragione quando lancia l’allarme sul pericolo che la degenerazione dei valori woke conduca a restrizioni della libertà di pensiero e parola, ma pretendere una riflessione collettiva sulla comicità non significa pretendere il bando dei comici. Se i comedian sono davvero l’avanguardia di una società, nella quale hanno un ruolo politico, dovrebbe essere scontato per loro ragionare sui propri codici e sui significati culturali dei contenuti che propongono; un comico dovrebbe optare per una comicità non discriminatoria e non escludente in maniera naturale, senza che siano le pressioni del pubblico a scegliere per lui. Allo stesso tempo, gli spettatori dovrebbero maneggiare con più cura il potere che hanno, facendo in modo che la legittima manifestazione del proprio dissenso di fronte all’umorismo punching-down sia uno strumento utile a spingere verso un’ecologia dell'ambiente comico e non un mezzo per scatenare linciaggi.
E invece da una parte c’è l’audience, che con la scusa del difendersi dalle offese prova a bloccare ogni tipo di pensiero dissonante dal proprio e favorisce con sadico gusto le gogne d’ogni tipo, dall’altra ci sono gli artisti che si nascondono dietro agli attacchi scomposti e sbagliati e agli intollerabili tentativi di censura per continuare a fare battute razziste, misogine, ecc. senza mai mettersi in discussione e pretendendo pure che le categorie colpite stiano zitte.
Nei primissimi giorni dopo la notte degli Oscar, mi sentivo insoddisfatto di molti commenti al riguardo che segnalavano la gravità del passaggio dall’ambito delle parole (la battuta) a quello dei fatti (lo schiaffo) perché, nonostante istintivamente fossi certo che fosse sbagliato picchiare chi ti prende in giro, sentivo la mancanza di un’indagine sulla violenza verbale, come se non fosse anche quello un fattore rilevante per inquadrare la questione. Mi sembrava che stessimo dando per scontata la differenza tra violenza verbale e violenza fisica, ma nel darla per scontata avevamo perso la consapevolezza sul perché lo fosse. O almeno, io l’avevo persa: ammetto che per schiarirmi le idee mi è stato indispensabile leggere i pareri di quanti hanno commentato il mio post su Facebook citato più sopra, molti dei quali mi hanno esposto in maniera efficace quello che io intuivo solo confusamente.
La violenza verbale/psicologica esiste ed è un problema enorme. E’ importante maneggiare con cura le proprie parole, prendersi la responsabilità di ciò che si dice su un palco e saperlo difendere con argomenti fondati; lasciamo “E’ solo una battuta” ai comici scarsi. Va sottolineato che in molti casi la violenza verbale si manifesta in maniera sfuggente, difficile da intercettare e definire in maniera precisa. E sta proprio qui una importante differenza: il dolore (o la morte) è la conseguenza diretta e immediata di un’aggressione fisica, mentre la sofferenza causata da un insulto è qualcosa di più complesso, meno lineare, tant’è che, anche nei casi estremi di suicidio, spesso è difficile stabilire con certezza quanto hanno influito le offese ricevute. Certo, come ha sottolineato Laura Formenti commentando il mio post, la violenza psicologica viene già riconosciuta dalle leggi ed è sanzionabile (o considerata attenuante a una reazione), ma si tratta di casi nei quali, pur rimanendo un margine di ambiguità, ci sono fattori che rendono il danno provocato più oggettivo (si pensi ad esempio al mobbing). Semplificando molto, la violenza fisica ti può uccidere, quella verbale no, come ha ricordato Francesco Lancia rispondendo alla conversazione: “Una parola violenta non ti procura la morte in pochi secondi, ma ci mette un po’ più tempo, durante il quale immagino si abbia una qualche (a volte molto remota purtroppo, per condizioni personali, culturali o socio-economiche) chance di essere aiutato”. Per questo motivo, dando per scontato che lo scenario migliore sarebbe l’assenza di violenza di qualsiasi tipo, è “preferibile” quella verbale a quella fisica. A tal proposito, mi è tornata in mente la frase di Freud che avevo già citato in un altro episodio della newsletter: “L’uomo che per primo lanciò una parola insultante al suo nemico invece di una lancia fu il fondatore della civiltà”.
Un’ulteriore specificazione avanzata da molti è che le battute non possono essere considerate violenza. L’assunto è che un pugno ha sempre l’intenzione di ferire, una battuta no. Sono sostanzialmente d’accordo, ma anche tralasciando i casi nei quali comedian e battutisti social cercano lo shock invece della risata (casi che afferiscono all’ambito del trollaggio e non della comicità) e l’obiezione secondo la quale non tutto ciò che dice un comico sul palco è automaticamente una battuta (mi vengono in mente esempi di comedian che insultano il pubblico, non per far ridere ma perché davvero incazzati. Dove sta la linea?), credo valga la pena soffermarsi su un punto: chi stabilisce qual è l’intenzione di un joke? Quello comico è uno dei testi più aperti che esistano, che per funzionare presuppone l’interpretazione del pubblico. La critica e l’analisi linguistica dispongono di strumenti che permettono di determinare con un alto consenso se una frase è effettivamente una battuta o no, però riconosco che ci sono altri casi per i quali è molto più difficile arrivare a risposte definitive.
Sia Chiara Cherubini che Mario Raz mi hanno fatto notare che è il contesto a determinare lo statuto inoffensivo di una battuta: come sul ring è lecito picchiarsi, così in uno show comico è concesso “ferire” con le parole. “Dove c’è un conflitto ludico abbiamo un gioco, non c’è mai vera violenza” sostiene Raz, e in effetti i roast funzionano proprio grazie a questo meccanismo, “Mentre quando lo scambio non è definito e ogni parte agisce per sé e per assoggettare l’altra, li c’è violenza”. Ma allora se è il contesto a determinare cosa è battuta e cosa no, e se il contesto è dato dal consenso di entrambe le parti (il comico e il pubblico), allora la stessa frase in ambiti diversi assume valenze differenti; l’esempio più eclatante sono i social network: lì il contesto non esiste, la battuta raggiunge una platea immensa che spesso non ha scelto di ricevere quel messaggio, che non condivide col comedian un background che permette di costruire l’ambientazione ludica delle sue frasi. Spesso si dice che se vai a uno spettacolo comico acconsenti implicitamente al fatto che si faranno battute, ed è ovviamente vero, ma nella pratica capitano situazioni in cui il pubblico si trova a uno show senza saperlo, come i pub dove non sempre gli avventori sono a conoscenza della programmazione del locale, e questo comporta un rapporto meno chiaro ed esplicito col comedian. Inoltre, anche quando spettatori e performer convengono sul contesto comico della serata alla quale stanno partecipando, possono esserci divergenze sui limiti di questo accordo: non tutti ritengono lecito ridere di qualunque argomento e avvertiranno quindi alcune battute come una violazione del patto tra loro e il comico.
Mi sembra dunque che la consensualità al gioco comico è un valore che va continuamente negoziato. Occorre un grande lavoro culturale col pubblico per promuovere regole condivise e consapevolezza sul ruolo dei comedian.
In ogni caso, la complessità nello stabilire certezze sulla comicità dimostra che essa è una forma di convincimento personale, di valore individuale: picchiare qualcuno perché ha un senso dell’umorismo diverso dal tuo è come menare uno che ha diverse opinioni politiche, colpirlo per le sue credenze religiose, aggredirlo per le sue idee. Messa in questi termini, mi sembra ancora più evidente quanto sia sbagliato.
Terreno forse ancora più scivoloso è quello della comprensione del gesto di Will Smith. Facciamo molta fatica a distinguere l’atto del comprendere da quello del giustificare, eppure la prima cosa non implica necessariamente l’altra. Nel caso specifico, credo che si possa capire perché ha sbagliato, dove “capire” e “sbagliato” hanno lo stesso peso. La reazione di molte persone, di molti di noi, quando ci sentiamo offesi è la violenza, perché spesso non abbiamo strumenti interiori per affrontare la cosa in maniera diversa. Constatarlo non significa sminuirlo; anzi, è solo prendendo atto della diffusione della violenza che si può cominciare a pensare a come contrastarla.
Soprattutto, credo che provare a mettersi nei panni degli altri sia un atto indispensabile per interpretare il mondo in modo più efficace per costruire un vivere comune migliore. Uno degli aspetti più preoccupanti di questo momento storico è l'incapacità di accettare gli errori degli altri: pretendere la purezza da chi ci sta attorno è un modo tossico di intendere le relazioni, perché ci espone al fanatismo; prima o poi la realtà, con tutti i suoi difetti, viene ad infrangere la perfezione che illudendosi si esigeva, e questo genera inevitabilmente una delusione enorme (perché colpisce un’ideale su cui si era riposto molto), difficilissima da gestire e che trova come unico sfogo le shitstorm, l’indignazione feroce, l’attacco personale senza misura nel quale qualsiasi errore ha la stessa gravità perché o sei puro oppure sei un mostro, senza alcuna via di mezzo. Lungi da me difendere uno schiaffo, ma trovo ragionevole non porlo allo stesso livello di una rissa, di un accoltellamento, delle percosse al proprio o alla propria partner.
Vedere le altre persone non come pazze, cattive, incomprensibilmente estranee a noi, ma come esseri umani che, al pari nostro, sbagliano, falliscono, si comportano male, aiuta a relazionarsi al prossimo in maniera più aperta, che secondo me è la premessa per una società più inclusiva. Will Smith ha sbagliato. Ogni errore ha delle conseguenze, ed è giusto dibattere dell’accaduto, ma bisognerebbe sempre cercare di non cadere nella trappola dei giudizi sommari, delle sentenze senza possibilità di riscatto, nella tentazione di espellere chi sbaglia in quanto altro-da-noi. “Sono un essere umano. Nulla di ciò che è umano mi è estraneo” ha scritto Publio Terenzio Afro; la comicità, che ci fa ridere delle nostre miserie, può essere un mezzo per far propria questa massima.
Segnalazioni
In questo TED Talk il comedian malese Rizal van Geyzel parla dell’empatia nella comicità e di come essa sia un tassello fondamentale nella relazione tra performer e pubblico.
Quasi in contemporanea con lo schiaffo di Will Smith è scoppiata la polemica su una battuta di Pietro Diomede (chissà se la notizia è circolata anche al di fuori dei comedy addicted). Alcune cose di quello che ne penso le trovate tra le righe di questa puntata di Tendenza Groucho. Segnalo il post di Luca Zesi, non perché lo condivida in toto ma perché l’ho trovato molto stimolante.
Alessandro Cappai e Giordano Folla hanno creato un nuovo podcast, si chiama Tazza di Caffè e ospita ad ogni puntata un comico, un artista, qualcuno con cui parlare per una quarantina di minuti. Consigliato!
L’angolo autoreferenziale
Fast Religion Comedy è il profilo Instagram nel quale Natalia Vasilishina pubblica foto artistiche e “semidigitali” di stand-up comedian, colti nel backstage o in altri momenti fuori scena. Nell’immagine qui sotto, sono ritratto col mio nuovo iPhone.
Dove vedermi live
Questa sera, martedì 19 aprile, farò mezz’ora alla Birrofila di Milano, in compagnia di John Vincent e presentato da Mattia Rellini.
Venerdì 22 introdurrò il one man show di Andrea Paone alla Birreria Majnoni di Erba (in apertura Luigi Gigliobianco), dove il 6 maggio arriverà Edoardo Confuorto.
Martedì 26 al Wipe Out arriva Giuseppe Ciuffreda, mentre il 10 maggio è la volta di Elisa Benedetta Marinoni e Simone Luzi.
Sabato 30 aprile sarò al BlaBlaBla Bar di Lodi assieme agli altri Scomedy Five, ovvero Amedeo Abbate, Simone Luzi, Andrea Nani e Luce Pellicani. Si tratta di un progetto nuovo, che spero porterà a succose altre iniziative.
Il video alla fine
Lo scorso 12 aprile è morto Gilbert Gottfried. Uno di quei comici unici, che si stagliano con la loro personalità. Amato da gli altri comedian, era famoso per la sua volgarità senza limiti e per il gusto provocatorio che davano origine a barzellette memorabili e battute folgoranti. Questo video è un montaggio di uno degli episodi più celebri della sua carriera: durante il roast a Hugh Hefner, il 29 settembre 2001 fa una battuta sull’attentato alle Torri Gemelle a pochissimi giorni dall’accaduto, scatenando l’indignazione del pubblico; decide allora di raccontare la sua versione de The Aristocrats, un joke classico che permette all’interprete di dar sfogo al suo immaginario di perversione e schifo, cosa che Gottfried fa da par suo. E’ un trionfo, in quello che rimarrà per sempre un momento iconico per la comicità mondiale.
You want me to start at the beginning?