It’s Tough at the Top
A qualche mese dalla sua uscita su Netflix, ho finalmente recuperato l’ultimo special di Dave Chappelle, The Closer. La sua visione mi ha portato a riflettere su diverse questioni legate alla comicità.
In questo show il comedian si difende per lungo tempo dalle accuse di transfobia ricevute soprattutto dopo il precedente spettacolo, Stick & Stones, cogliendo l’occasione per ribadire la sua visione del mondo e della stand-up.
Da quello che avevo letto al riguardo, mi aspettavo uno special poco divertente, quasi una predicazione stile tardo Lenny Bruce. In realtà, nonostante mi trovassi spesso in disaccordo con le idee di Chappelle e col suo modo di portarle in scena, lui mi è sembrato ancora bravissimo a livello tecnico e performativo. E arriviamo subito a un primo punto: “far ridere” e “esprimere pensieri condivisibili” sono due abilità che si intrecciano ma che non dipendono rigidamente l’una dall’altra. Proprio per questo il mestiere del comico è ambiguo: c’è chi lo giudica solo in base alla capacità di suscitare la risata (a prescindere dal contenuto delle battute) e chi confonde l’opinione contraria alla propria col non essere divertente. E’ ovvio che l’apprezzamento personale che riserviamo a un comedian deriva da una sintesi di entrambi questi aspetti, ma nell’analisi del suo repertorio bisognerebbe avere la lucidità di tenerli separati. Questo ci permetterebbe di riconoscere con più tranquillità che un comico che non la pensa come noi possa far ridere (e magari anche tanto!) e che un comedian allineato al nostro sentire possa invece esser poco divertente.
Nello specifico di Closer, come accennavo, molte tesi non mi hanno convinto. Chappelle cita ad esempio il caso di Dababy (un rapper che in passato ha ucciso una persona di colore in un Walmart e che più recentemente è stato nell’occhio del ciclone per delle sue uscite omofobe) per sostenere che oggi si possa tranquillamente ammazzare un nero ma non ferire l’animo di un gay: ma la verità è che quello avvenuto nel negozio della celebre catena USA non è stato un crimine d’odio ma un episodio di autodifesa da una rapina che dunque, per quanto difficile da valutare, non ha senso classificare come un atto di razzismo da accostare ad uno contro gli omosessuali. L’avvicinamento tra i due eventi operato da Chappelle è subdolo perché, inquadrata nei termini da lui scelti, la questione stimola l’approvazione non solo degli afroamericani, ai quali viene confermato che subiscono enormi discriminazioni (cosa verissima), ma anche di tutti coloro che pensano venga dato troppo peso ai diritti e ai sentimenti dei gay. Messa così, potrebbe essere la tesi di un qualsiasi rossobruno.
Ecco un altro punto: il comico, come qualsiasi oratore, è un manipolatore. La scelta degli argomenti, del punto di vista, addirittura delle parole, orienta la visione del pubblico, galvanizzato oltretutto dalle endorfine rilasciate dalle risate che il comedian ha provocato. Chiariamo: non c’è nulla di male, è la natura stessa delle narrazioni, indispensabili strumenti di orientamento nella confusione del mondo. Basta esserne consapevoli, sia da spettatori (provando sempre a fare “un passo indietro” rispetto alla prima sensazione che ci genera una battuta) che da interpreti, tentando di costruire racconti aperti, inclusivi, capaci per quanto possibile di mettere in discussione sé stessi.
Ci sono poi dei momenti ancora più spinosi nello special: su tutti, il racconto di quando ha pestato una donna pensando fosse un uomo. Episodio che tra l’altro è un (involontario?) parallelo con la storia narrata da Hannah Gadsby in Nanette. Non lo considero problematico in sé: non mi scandalizzo se qualcuno rivela i suoi lati oscuri, anzi trovo che quel tipo di comicità sia tra i più interessanti. Ma per essere stimolante, la propria abiezione va in qualche modo elaborata, occorre guardarla con distacco, saper evidenziare gli errori, le debolezze, essere giunti a una qualche forma di consapevolezza superiore. Altrimenti si corre il rischio molto forte di assistere ad una vanteria, all’esaltazione della propria scorrettezza: in Closer non c’è una riflessione sul meccanismo della violenza ma (mi pare) solo la risata sotto i baffi per aver picchiato una persona di sesso femminile che sembrava un uomo.
Ancora una volta: questa critica nulla toglie al talento di Chappelle, che dopo aver parlato della gelosia di quella donna chiude con “Le ho fatto sputare la mascolinità tossica” che è un finale stupendo proprio perché apre a riflessioni non scontate sulla pervasività del machismo, talmente radicato da contagiare anche le donne.
In Stick & Stones c’è un altro bellissimo momento che dimostra la sua profondità: il comico ricorda che quando gli impedirono di usare la F-Word durante le registrazioni del Chappelle Show chiese perché non potesse dire quella parola ma potesse invece pronunciare la N-Word impunemente, e sentendosi rispondere che il motivo era perché non è gay, ribatté: “I’m not a nigger either”. Aldilà del modo divertente con cui arriva a questa chiusa, il pezzo ha il suo valore nello spiazzamento, dato che dona al discorso uno spessore che sembrava non avere, costringendo lo spettatore a mettere in discussione anche l’assunto dato spesso per assodato che lo slur sia giusto appannaggio delle minoranze identificate dall’insulto.
Un terzo punto che vorrei sottolineare è proprio questo: il merito di Chappelle è proporre visioni non scontate, muoversi in territori controversi con intelligenza (e umorismo). E’ una sfida, perché si vanno a toccare argomenti sensibili: non solo ci saranno sempre persone nel pubblico che non vorranno nemmeno che se ne parli ma è anche del tutto pacifico che nessun comedian (nemmeno the greatest of all time) può sempre essere impeccabile in questi ambiti.
Prendiamo ad esempio il pezzo su Michael Jackson: se anche il cantante fosse colpevole di molestie sui bambini, afferma Chappelle, a lui non importerebbe perché: “Voglio dire, è Michael Jackson!”. Qui riesce in una battuta a condensare una contraddizione che credo molti di noi vivono quando si tratta di giudicare i nostri idoli; poi però va oltre, dicendo che il bambino molestato sarà stato felicissimo di esser stato abusato dal re del pop, ed è ovviamente un assunto molto più discutibile perché potrebbe sembrare che in qualche modo neghi alla vittima il suo dolore.
Ecco: nella querelle Chappelle/transgender, a mio avviso, questa distorsione del meccanismo comico (l’esigenza di esagerare che prevale su qualsiasi altra considerazione), che a piccole dosi è praticamente inoffensiva, ha raggiunto un livello estremo portando ad una fase dalla quale temo sia davvero difficile tornare indietro.
Ipotizzo che, inizialmente, a spingere il comico a fare battute sulla comunità LGBTQ+ siano stati una sua propensione personale e il gusto di intercettare i temi più scottanti. Con un’indole come la sua, era inevitabile che le critiche lo hanno spinto a insistere, ma quella che in teoria è una prassi positiva (fare comicità sui nervi scoperti della società) si è ben presto trasformata in un’escalation compulsiva per entrambi gli schieramenti: adesso chi odia Chappelle vede in ogni sua parola sull’argomento un atto di guerra alle minoranze; lui valuta anche il minimo dissenso verso la sua arte come una minaccia oppressiva alla libertà d’espressione alla quale può rispondere solo alzando il livello della provocazione.
Tralasciando le dinamiche che hanno portato a questo stallo, è interessante provare a capire il punto di vista dal quale Chappelle scrive battute sulle persone transgender. Mi sembra che i suoi joke sull’argomento si basino tutte su un presupposto nascosto: la realtà come l’abbiamo percepita finora, le divisioni che regolano la società nella quale viviamo, non possono cambiare. Quindi qualsiasi “pretesa” delle persone transgender di scardinare l’impostazione attuale (rendendo fluidi concetti come uomo e donna) è assurda e quindi comica. Il paragone enunciato in Stick & Stones tra le persone transgender che si sentono nel corpo sbagliato e Chappelle che potrebbe sentirsi cinese è sì divertente (proprio perché assurdo) ma parte da una chiusura rispetto alla comprensione dell’altro e alla possibilità del cambiamento: ride di una cosa che trova incomprensibile, meritevole di scherno proprio perché la ritiene in contraddizione irrisolvibile con le regole che governano le nostre vite.
Ma sono i fatti stessi a smentirlo: nello sport, ad esempio, si discute da tempo di nuovi regolamenti proprio per evitare le ipotetiche derive paradossali di un atleta nato maschio che cambia sesso e gareggia con le donne superando tutte dal punto di vista fisico. Più in generale, il passaggio da modelli consueti a nuove forme di pensare e di gestire la varietà del mondo è sicuramente complicato, ma è tutt’altro che impossibile. Le cose cambiano e fossilizzarsi sugli assunti pregressi non fa certo bene alla comicità, che per essere intelligente deve stare il più possibile alla larga dagli stereotipi che sono, appunto, idee sclerotizzate che han perso la capacità di parlare al presente che tutti viviamo.
In tutto questo, comunque, Chappelle non manca di esporre trovate argute e a loro modo stimolanti; personalmente, mi ha convinto di più dal punto di vista comico il passaggio in cui afferma qualcosa tipo: “Non dico che le donne trans non siano donne, ma che loro passere non sono passere” che è discutibile ma almeno tenta un guizzo di particolarità.
Purtroppo però anche i bit più efficaci non riescono a togliere agli ultimi special la loro ambiguità: il proposito annunciato nel finale di Closer di non fare più battute sulla comunità LGBTQ+ finché non sarà sicuro che potranno ridere assieme è meritorio ma si fa davvero fatica a pensare che Chappelle ci creda davvero. Tanto più che conclude il monologo con l’accusa a gay e trans di “colpire” la sua gente, cioè i comici. Proponendo tra l’altro come esempio la mancata presentazione degli Oscar da parte di Kevin Hart a causa di alcune sue dichiarazioni omofobe, e insomma buttarla sul “Poverino il mio amico comico famosissimo (e rimasto tale dopo le polemiche) che ha subito il gravissimo torto di non poter presentare gli Oscar” non mi sembra la strategia più efficace per sostenere la pericolosità della cancel culture.
Uno degli aspetti più deboli dello special è quello che vorrebbe essere il suo apice: negli ultimi minuti Chappelle parla di Daphne Dorman, una comica transgender sua amica che lo ha difeso su Twitter dalle accuse di transfobia, ricevendo per questo una scarica di insulti dalla sua stessa comunità che l’ha percepita come traditrice. Puntando al colpo di scena, il comedian di Washington spiega che, in seguito a questa shitstorm, Dorman si è uccisa, suggerendo abbastanza chiaramente una correlazione tra le due cose. Ma se è innegabile che questo triste episodio sia emblematico della violenza dei social, usare quella morte per la propria retorica è un colpo basso, più emotivo che razionale, non solo perché in questi casi è davvero difficile trovare una causa specifica e unica a motivazione del gesto ma anche perché, fatto salvo ovviamente il massimo rispetto per questa vicenda dolorosa, un’amica suicida non è un argomento a tuo favore, non ti dà ragione, semplicemente non c’entra nulla col merito della discussione.
Nel complesso, comunque, ho trovato Closer meno problematico di quello che mi aspettavo. Ma come? Dopo tutte queste righe ci vieni a dire che è ok? In effetti sì, il mio messaggio è proprio il seguente: Closer contiene diverse cose che non mi sono piaciute, e va bene così. Non c’è nessuna tragedia in questo.
Molte delle battute di Chappelle si basano sul suo stupore di fronte a donne mascoline: come ho detto prima, sono sintomo di una visione perlomeno ristretta del mondo, e abbiamo tutto il diritto di trovarle stucchevoli e datate (e di pretendere di più da chi si considera il più grande comico di tutti i tempi), ma essendo focalizzate sulla sua reazione alle persone transgender non mi sono sembrate aggressive, seppure con una certa ambiguità.
La pecca più grande è che, prendendola inevitabilmente sul personale, non è stato capace di ricevere neanche un minimo degli appunti che gli sono stati fatti. Non è detto che bisogna accogliere le critiche, ma è questione di approccio: dopo l’esibizione di Checco Zalone a Sanremo, ho pubblicato su Instagram questo reel e una collega comica mi ha detto che secondo lei la mia battuta rafforzava il cliché che la persona transgender sia solo l’uomo che diventa donna. Non ero d’accordo, ne abbiamo discusso e alla fine siamo rimasti sulle nostre opinioni, ma l’atteggiamento di entrambi era propositivo: lei non mi ha accusato di transfobia, ha semplicemente espresso il suo parere; io non ho gridato alla censura ed anzi ho ascoltato attentamente quello che aveva da dire, perché ritengo sia molto utile scoprire come vengono percepite le proprie parole. Non per forza per cambiarle (anche se è una possibilità che dovrebbe essere contemplata) ma per maneggiarle con ancora più precisione, forti del proprio intento forgiato nella chiarezza.
La sordità di Chappelle alle critiche è speculare ad un’altra forma di barricata, quella di molti suoi detrattori, che non si limitano ad esporre le loro perplessità sui suoi monologhi ma pretendono che questi “peccati” siano pagati cari col biasimo universale, la gogna mediatica, la condanna senza appello e la pena del bando dalla pubblica piazza. A differenza loro, sogno un mondo dove si accetti con più serenità che un comico (che una persona) possa sbagliare, possa dire stupidaggini colossali, possa perfino offenderci nel profondo, senza che questo voglia dire reputarlo un mostro o pretendere la sua morte sociale.
Non dico nulla di nuovo, me ne rendo conto, eppure siamo molto lontani da quella che vorrei fosse la normalità: un comedian ha la libertà di dire quello che vuole, il pubblico ha la libertà di criticarlo, lui difende le sue scelte, ragiona su quanto gli viene detto, tutti sfruttano l’occasione per approfondire le proprie riflessioni e affinare i pensieri anche in base ai diversi stimoli che arrivano dagli altri, se è il caso si cambia idea, addirittura si può chiedere scusa, oppure no, amici come prima e si va avanti. Com’è che era? You may say I’m a dreamer…
Segnalazioni
Luca Cupani ha realizzato un bellissimo videodocumentario sul Fringe Festival di Edimburgo, la più importante rassegna teatrale al mondo e La Mecca della stand-up comedy europea.
Dorian Lynskey su su UnHerd si chiede perché molti recenti esempi di successo nella stand-up (anche diversissimi tra loro: dalla Gadsby a Rogan, per dire) sembrino aver accantonato l’obiettivo di essere divertenti. In realtà, come emerge dall’articolo, la questione è molto più complessa di così e oggi sembriamo essere giunti a una fase “post-funny” e “post-truth-telling”.
Venerdì 25 febbraio Amedeo Abbate sarà in scena col suo show al Teatro Martinitt di Milano. I biglietti li trovate qui, evento più che consigliato.
L’angolo autoreferenziale
Tra le altre cose che ho fatto questo mese, sono stato il primo ospite di Black Box Comedy Lab, un’interessante format organizzato da Lorenzo Baronchelli a La Serra di Seriate: serate di comicità nelle quali il guest non viene annunciato e il pubblico si trova in presenza di uno o più comedian senza sapere cosa lo aspetti. Con la sua originalità, BBCL va ad arricchire il fermento underground che si sta sviluppando un po’ dappertutto.
Dove vedermi live
Prima della sfilza di microfoni aperti e presentazioni, mi fa piacere annunciare che riprende Monza Comedy Night coi ragazzi e le ragazze dello Scuotivento: venerdì 18 marzo saliremo sul palco io e Giorgio Brambilla, nella nuova sede dello Spazio Rosmini.
Domani, 20 febbraio, sarò all’open mic de Le Trottoir in orario aperitivo; venerdì 25 ho l’onore di presentare Alessandro Ciacci alla Birreria Majnoni di Erba, per replicare il suo show il 1 marzo al Wipe Out di Senago, dove il 15 del prossimo mese si esibiranno Mattia Rellini, Angelo Amaro e in apertura Laura Pusceddu; il 26 febbraio parteciperò per la prima volta al microfono aperto del Lato B, mentre l’11 marzo torno in Birreria Majnoni con Clara Campi.
Il video alla fine
Doug Stanhope è uno degli underdog comedian più apprezzati. Ubriacone, sempre incazzato, performer rabbioso e disordinato, è entrato nei cuori di chi ama la stand-up dura e pura. Pensando alla sua immagine di oggi, fa strano vedere il debutto televisivo del 1992, con un viso quasi angelico e una pettinatura allucinante. Erano decisamente altri tempi.
Grazie alle imperscrutabili logiche di Youtube, il video è sottotitolato in polacco, per la gioia dei miei lettori di Varsavia.
¡Salud!