Umano, troppo umano
Tempo fa avevo trovato citato, non ricordo più dove, un libro sull’umorismo che, non ricordo più perché, mi aveva incuriosito. Mesi dopo l’ho letto e l’ho trovato interessante. Siccome non mi pare che sia tra i volumi più noti sull’argomento, ho deciso di dedicare ad esso questa puntata della newsletter.
Il libro è Humour, di Simon Critchley, pubblicato da il melangolo nel 2002. Si tratta di un saggio breve, 109 pagine, piuttosto scorrevole: non ha passaggi troppo complicati (solo in pochi casi si avventura in ragionamenti e concetti non immediati) e tratta numerosi temi in maniera succinta ma non superficiale.
Nell'introduzione-capitolo 1 l’autore parte da un’avvertenza: “Quando si tratta di ciò che ci diverte diventiamo tutti delle autorità, tutti specialisti. Che cosa sia divertente, ognuno di noi lo sa”. Ciò significa anche, paradossalmente, che sia molto difficile, se non impossibile, fare una filosofia dello humour. “Spiegare una barzelletta equivale a fraintenderla”. In ogni caso, Critchley definisce le battute di spirito come frasi che “producono strappi nel nostro modo consueto di vedere il mondo empirico”, mostrando quanto le pratiche sociali comunemente accettate non abbiano carattere di necessità. Per esserci comicità ci deve essere un contratto sociale condiviso tra artista e pubblico, che la comicità va a rompere. Il che, aggiungo, ci dovrebbe spingere a riflettere sul fatto che la scomparsa del contesto creata dai social media, non assicurando che un reel arrivi a chi condivide col comedian un patto sociale, è la fonte di molti problemi comunicativi del nostro presente.
Viene anche subito sottolineato che se questo meccanismo dona alla comicità la possibilità di criticare l’esistente è anche vero che esiste un umorismo che invece conferma lo status quo, così come ne esiste uno reazionario che si basa su (e rafforza) pregiudizi e disuguaglianze. “Lo humour ha la capacità di svelare in noi una persona che, francamente, preferiremmo non essere”.
Si passa poi a un breve riepilogo delle tre principali teorie dello humour: la teoria della superiorità (ridiamo per un sentimento di superiorità verso altre persone), la teoria del sollievo (il riso è liberazione di energia nervosa repressa) e la teoria dell’incongruenza (lo humour è prodotto dalla percezione di un’incongruenza tra un’aspettativa e ciò che effettivamente accade).
Ben presto Critchley dichiara un punto di vista netto: lo humour “vero” (usa proprio questo aggettivo), è quello che non ferisce una vittima specifica e contiene sempre autoironia. Messo così, mi sembra un paletto troppo rigido, che esclude sia diversi gradi di ambiguità che invece trovo estremamente interessanti sia tutto l’umorismo che non è autoriferito, il che mi sembra una eliminazione gigantesca. Sicuramente, comunque, il libro rende conto in maniera esaustiva di questa convinzione.
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Il capitolo 2 verte sull’asserzione che la risata è solamente umana. Citando una teoria del filoso Helmuth Plessner, Critchley suggerisce che ciò che ci distingue dagli animali è la capacità di avere un atteggiamento riflessivo circa le nostre esperienze; questo comporta la possibilità (preclusa agli animali) di distanziarci da quelle esperienze immediate, ed è in tale frattura tra il fisico e lo psichico che germoglia la risata. Tra l’altro, aveva fatto notare nell’introduzione, essa è innanzitutto un fatto corporeo, che nasce da una perdita di controllo del proprio fisico, e che questi sono due motivi per i quali la comicità è stata a lungo osteggiata dal potere religioso. Lo scrittore si diverte a citare diverse opere nelle quali il confine tra l’animale e l’umano si fa sfuocato, provando a capire il ruolo dell’umorismo in questi mischiamenti.
Il terzo capitolo approfondisce la duplicità dell’uomo, concentrandosi sul corpo che gli appartiene. Infatti, nota Critchley, noi non siamo il nostro corpo, lo abbiamo. E’ come se la nostra mente abitasse il fisico che ci portiamo dietro. Un’ulteriore discrepanza (oltre a quella con la natura) che conferma l’eccentricità dell’uomo, intesa come capacità astrazione rispetto a sé stessi e al mondo che lo circonda.
Lo humour opera sfruttando il divario fra essere un corpo e avere un corpo, cioè, per così dire, fra l’aspetto fisico e quello metafisico dell’essere umano. Io scommetterei che quel che ci fa ridere è il ritorno del fisico entro il metafisico, cioè il momento in cui la pretesa sublimità tragica dell’umano sprofonda in una ridicola comicità che è forse ancora più tragica.
Ironia della sorte, i due poli entro i quali ci dibattiamo (ed è in questo conflitto che nasce l’umorismo) hanno in inglese un suono molto simile: our souls e arseholes.
Alludendo a una separazione dell’uomo dal suo corpo e dalla natura, l’umorismo ha sempre un lato oscuro, suscita una sorta di malinconia dovuta alla consapevolezza della nostra estraneità. Avere questa consapevolezza, sostiene Critchley, non permette comunque di poter tornare al fisico. Immagino dunque che l’autore non creda nelle discipline come lo yoga che invece promettono proprio un riavvicinamento all’essere il proprio corpo. Sicuramente, l’autore dice in maniera chiara che diffida delle teorie, come quella di Bachtin, che associano il riso all’esaltazione del corpo, in un’ottica totalmente positiva di questo rapporto con la fisicità: secondo Critchley simili “romanticizzazioni” e “eroizzazioni” della materialità non considerano l’aspetto problematico del riso, che è appunto quello di ricordarci costantemente che non possiamo essere il nostro corpo.
In questo contesto, viene introdotta (pur con pochi, brevi accenni) anche la teoria dello humour come “sintassi della debolezza”, espressione ripresa da Beckett che vuole indicare la costruzione di una serie di frasi che si indeboliscono da sole. In pratica, l’umorismo procede smontando i pezzi che ha precedentemente presentato, sminuendo il valore degli assunti passati, passando dall’assoluto all’assolutamente relativo.
L’uomo dunque non potrà mai essere solo fisico, tanto che considera la propria essenza come qualcosa che prescinde e va oltre il corpo; ma quest’ultimo rimane una parte importante e ineliminabile della sua natura, nonostante la tendenza che abbiamo a dimenticarcelo, tutti concentrati a ritenerci “anima”, o “coscienza”. Nel capitolo 4 si parte dalle celebri teorie di Bergson sul riso (l’effetto comico nasce quando un essere vivente assume comportamenti meccanici) e, riportando il pensiero dell’artista Wyndham Lewis, si arriva a ipotizzare che la radice del comico sia da ricercare in un essere umano che si comporta da essere umano, intendendo con questo i casi nei quali ci pensiamo “distinti” dal nostro corpo e agiamo come se la nostra essenza fosse disgiunta dal fisico. Il motivo per il quale troviamo divertente (per riprendere un esempio fatto da Bergson stesso) un oratore che starnutisce nel punto più commovente del discorso è perché quello starnuto ci riporta alla natura fisica dell’uomo, che siamo così propensi a dimenticare.
Nel sesto capitolo, Critchley si chiede se le battute abbiano pretese di validità, ovvero se abbiano ragioni che chi fa le battute può considerare vincolanti anche per gli altri. La sua risposta mette in luce come l’umorismo stia sempre in bilico tra il soggettivo e il senso comune: certamente quello che fa ridere una persona non sempre ne fa ridere un’altra, ma l’atto di dire una battuta presuppone l’assenso degli altri. E’ come se, ad ogni punchline, il comico facesse una scommessa su quanto condiviso sia quello che ha appena detto. L’autore specifica poi che il “sensus communis” latino andrebbe tradotto con “socievolezza”, perché implica quel piacere che si ottiene nell’essere amichevoli e comunicativi; anche in quest’ottica si può ravvisare un’ambivalenza del comico: puntando ad un consenso il più ampio possibile esso tende a essere democratico, ma riferendosi in maniera troppo rigida al sentire condiviso rischia di diventare nemico dell’individuo, allergico alla divergenza, difensore del buon gusto, sciovinista.
Critchley arriva a definire le battute “anamnesi del quotidiano”, ovvero osservazioni chiarificatrici, modi di descrivere i fenomeni sotto una nuova luce che ci rammenta ciò che già sappiamo. Si potrebbe dunque dire che le battute hanno una pretesa di validità non universale ma comunitaria: il comico si aspetta l’approvazione di una specifica comunità (che può essere etnica, sociale, di nicchia, ecc.), quella che condivide la verità (relativa) che i suoi joke illuminano.
A questo punto l’autore si pone una domanda molto interessante, alla quale risponde in maniera altrettanto stimolante (il grassetto è mio):
se lo humour è definito dai confini del “noi” a cui si rivolge una battuta di spirito, se il senso dello humour è relativo ad un mondo-vita condiviso ma specifico, ciò significa allora che tutto lo humour è reazionario o conservatore? Per la maggior parte lo è, e forse lo humour avrà sempre come carattere dominante il ridere degli altri. […] Questo è ciò che intendo per humour come forma di sensus communis, in cui si può dire che le battute avanzano pretese di validità intersoggettiva del tipo che ho descritto in precedenza. In secondo luogo, tuttavia, voglio affermare che oltre a ciò lo humour indica - o forse solo adombra - in che modo queste pratiche potrebbero venir trasformate o migliorate, in che modo le cose potrebbero essere diverse. E’ lecito, cioè, sostenere che lo humour proietta un altro possibile sensus communis, ovvero un dissensus communis distinto dal senso comune dominante.
Nel capitolo finale vengono prese in esame alcune teorie freudiane, ed in particolare quelle espresse in Der Humor (1927): se alcune patologie della mente derivano da un rapporto problematico tra Io e Super-io (nella depressione il secondo giudica in maniera eccessiva il primo, nella mania il contrasto tra i due poli viene messo da parte tramite l’oblio di sé stessi), lo humour riesce a trovare una soluzione positiva a questo conflitto: “Il soggetto guarda se stesso come oggetto abietto, ma invece di versare lacrime amare ride di sé”. L’umorismo diventa un atto di auto-conoscenza e accettazione.
Seguendo i ragionamenti di Critchley, potremmo dunque dire che esistono due tipi di comicità su sé stessi: una positiva, frutto dell’accettazione di sé stessi, che funge da consolazione (sono, come tutti, un essere limitato e imperfetto, e ne rido), e una negativa, nella quale noi sbeffeggiamo noi stessi in una sorta di auto-bullismo che, lungi dall’esser benefico, può addirittura peggiorare la percezione di sé.
Concludo con una coincidenza straordinaria, che ho scoperto grazie a questo libro. Il citato saggio di Freud si chiude con queste parole: “Guarda, ecco il mondo che sembra così pericoloso! Non è altro che un gioco da bambini, e vale proprio la pena di scherzarci su”. Anche a voi ha fatto venire in mente qualcosa?
Segnalazioni
Nidal Badarneh è un comico palestinese, arrestato.
Un ritratto di Andy Kaufman, firmato da Carlo Amatetti.
L’angolo autoreferenziale
Sto provando a rinverdire il mio vecchio canale Youtube. Non prometto che troverete cose diverse rispetto agli altri social, ma insomma se vi iscrivete mi fate felice.
Dove vedermi live
Lunedì 5 maggio farò il mio one man show Nutro i miei dubbi al Caffè del Teatro di Fiorano Modenese (grazie a Mic Drop Eventi).
Mercoledì 30 aprile faccio mezz’ora al Ritrovo Enogattonomico di Bergamo, affiancato dall’ottima Patrizia Emma Scialpi, presentati da Giorgio Chiodini.
Giovedì 8 maggio replico i 30 minuti ai Giardini Luzzati di Genova su invito dei Li Evito Male.
Giovedì 24 aprile e giovedì 15 maggio torno a L’ultimo metrò di Mattia Bozzo (Milano), in mezzo al concerto jazz e alla jam session che fanno ogni settimana.
Sabato 26 aprile mi trovate a presentare la battaglio roast di Zelig, i biglietti si comprano qui.
Venerdì 9 maggio facciamo Tutto Sotto Controllo (il game show di improvvisazione comica con me, Davide Spadolà, Nando Prati e Patrizia Emma Scialpi) al Circolo Belleri di Piacenza, thanks to Andrea Chiappini.
Sezione open mic: martedì 6 maggio sarò all’Osteria Democratica di Milano.
Il video alle fine
Mezz’ora di comicità politica, offerta da Josh Johnson.
Viviamo in tempi strani.