A volte ritornano (a Milano)
Quando, nel 2019, Louis C.K. è venuto a esibirsi in Italia, la cosa è stata vissuta (anche da me) come un evento epocale, ed in effetti nonostante non fosse il primissimo comedian straniero a farlo (cito almeno i precedenti meneghini della Aguilar con Daniel Sloss, quelli romani di Altrascena e Becomedy con Judah Friedlander, portato anche a Cagliari da Stand-up comedy Sardegna, ma ne dimentico sicuramente molti), l’occasione di vedere dal vivo quello che era ed è considerato uno dei più grandi comici contemporanei pareva davvero unica. Fu, ovviamente, un trionfo, e probabilmente quel successo ha influito sulla decisione di insistere nel portare artisti anglofoni nel nostro paese: a fine giugno agli Arcimboldi arriva John Cleese, a luglio tocca a Jimmy Carr mentre a novembre sarà la volta di Hanna Gadbsy, che doveva esibirsi a gennaio ma si è rotta una gamba e ha rimandato il tour.
Tre anni fa, la performance di C.K. in Italia rientrava in un contesto a lui sfavorevole, dovuto all’emergere, nel 2017, delle ormai note accuse rivoltegli da giovani comiche, che lui ha poi confermato: in più occasioni, Louis si è masturbato di fronte a comedian più o meno esordienti causando disagio tale da mettere in dubbio per alcune di loro la volontà di proseguire con la carriera nella stand-up.
Prima del debutto milanese, ci fu anche un piccolo dibattito nell’ambiente, sulla convenienza di andare a vedere lo spettacolo, sostenendo una persona rea di quegli atti. Dopo lo show, a caldo, avevo scritto questo post con qualche riflessione, concentrandomi soprattutto sul suo pezzo dedicato alle molestie.
Quel monologo resta l’unico commento fatto sul palco da C.K. sull’argomento, ed essendo stato in qualche modo “fissato” e incluso in uno special registrato (intitolato Sincerely Louis C.K.), mi è sembrato interessante tornare a ragionarci, ripercorrendo la carriera del comico fino all’esibizione agli Arcimboldi lo scorso 29 maggio.
Uno dei suoi primi ricordi, rivela in uno dei suoi monologhi, è lui a quattro anni che si sta cagando addosso: “That’s who I am”. Ed in effetti, se dovessi sintetizzare l’universo comico di Louis C.K. indicherei tre grandi temi ricorrenti, con al primo posto proprio il degrado fisico, seguito dalla perversione sessuale e dalla morte. Rivedendo i suoi spettacoli di fila la cosa è evidente.
In Chewed up (uscito nel 2008, quando lui aveva 41 anni) troviamo già considerazioni sul grasso che lo fa sudare rendendo fastidioso qualsiasi indumento intimo, “The meal is over when I hate myself”, riferimenti alle feci e la confessione “I jerk off way too much” che oggi suona decisamente in maniera diversa. In questo spettacolo Louis dimostra una capacità incredibile di unire onestà (verso gli altri ma anche verso se stesso), chiarezza e comicità, una propensione che si porterà dietro per tutta la vita e che ha contributo a renderlo amato e apprezzato quale punto di riferimento per diverse generazioni di performer. Tra i numerosi monologhi memorabili, ho sempre trovato eccezionale quello al Saturday Night Live nel 2015 perché nel finale parla della pedofilia senza usarla (a differenza di molti) come mero trigger ma imbastendo un ragionamento delicatissimo sostenuto da una comicità devastante.
In Hilarious (2010) compare la Grande Mietitrice: siamo tutti persone morte che non lo sono ancora, ricorda Louis, un memento mori che verrà declinato in numerose variazioni negli anni successivi (ad esempio suggerendo che, delle 2.500 persone assiepate a vedere il suo show, statisticamente nel giro di un mese ne passerà a miglior vita almeno una). Ma, soprattutto, viene sviluppato ancora più approfonditamente il personaggio: non tanto per l’uso abbondante di acting, mimica, fisicità, quanto per la lucidità con cui riesce a esprimere il suo punto di vista. C.K. si dichiara stupido, uomo della strada, e in effetti le sue non sembrano mai tirate filosofiche, le sue verità non sono mai calate dall’alto; eppure propone discorsi profondi, come quello sull’educazione dei bambini nella nostra società, iperstimolati e per questo incapaci di godere davvero ciò che vivono. “We are the worst people so far” sostiene, un gruppo di ingrati che passano la vita a lamentarsi pur vivendo con tutti i comfort possibili.
In uno spettacolo molto rivolto all’esterno, agli altri, non rinuncia all’introspezione; spiega infatti al pubblico come lavora il suo cervello: stupidità, odio verso sé stessi e successiva analisi. Non solo: pian piano emerge una visione di sé come una brutta persona, consapevole di esserlo. Nel successivo Live at The Beacon Theater (2011) il comedian si descrive come un uomo con nobili propositi e forte convinzioni morali, che non mette in pratica neanche una volta. Si sente un uomo problematico, “prigioniero” dei pensieri sessuali inopportuni che gli affollano la mente. L’altro grande argomento che lo caratterizza, ovvero il rapporto con le figlie, è centrale nel suo discorso proprio perché gli permette di rivelare le parti di sé meno socialmente accettabili, ma paradossalmente universali: quando dice ad una delle due “Sono più annoiato di quanto ti ami” o quando racconta l’odio viscerale per un bambino di sei anni compagno di scuola di quella più piccola, sta condividendo pubblicamente i suoi lati oscuri ma sta anche rendendoli “affrontabili”, in quanto umani. La potenza delle sue parole sta proprio nella sincerità, accompagnato da un’abilità impareggiabile di far ridere.
Oh my God del 2013 resta uno dei suoi spettacoli migliori, una summa di quanto esposto finora, dalla morte alla decadimento fisico, passando per le perversioni. Gli ultimi venti minuti sono praticamente perfetti, in un crescendo di riflessioni su sé stesso (e sul sé stesso peggiore) che mettono in discussione la sua moralità (con concetti tipo: se l’omicidio fosse legale, forse avrei ucciso un paio di persone) e arrivano all’asserzione “Abbiamo tutti i nostri cattivi pensieri, ma alla fine, si spera, ci comportiamo bene” che apre il monologo finale, il celeberrimo Of course… but maybe?, uno di quei momenti magici nei quali il comedian diventa davvero un tramite verso una nuova percezione della realtà da parte dello spettatore.
Il 2015 lo vede protagonista col Live at the Comedy Store (nel quale sciorina i suoi classici temi, morte e corpo in primis, con una vena più assurda del solito), col risultato di essere “il primo comico a registrare ben tre sold out preso il mitico Madison Square Garden con lo stesso tour” (come si leggeva sulla pagina dedicata allo show milanese sul sito dell’Arcimboldi) ma, soprattutto, con le voci sempre più insistenti sui suoi comportamenti inappropriati nei confronti delle colleghe.
Come detto, due anni dopo i rumors diventano vere e proprie accuse, pubblicate sul New York Times. Da quel momento si scatena il dibattito che vede subito, come sempre, schierarsi due parti polarizzate: chi difende il comedian e chi vorrebbe che lo show business lo dimenticasse in tutta fretta. A pochi giorni dall’emersione dei fatti, Sarah Silverman è riuscita a parlarne in maniera lucidissima, dando voce a chi prova emozioni contrastanti al riguardo.
Di fronte a quanti hanno minimizzato la questione, credo sia giusto segnalare almeno due bias che non aiutano a comprendere la portata della vicenda: mi pare evidente che molti uomini abbiano grosse difficoltà a mettersi nei panni dell’altro sesso e a capire perché in una situazione del genere una donna possa sentirsi minacciata o anche soltanto disturbata. Basta parlarne con le dirette interessate per scoprire che invece è proprio così. Inoltre, bisogna ricordare che queste vicende si sono svolte in un ambiente di lavoro; perché, nonostante si faccia fatica a riconoscerlo, quello dei comedian è (anche) un contesto lavorativo, e in nessun altro contesto lavorativo verrebbe tollerato un collega che chiede alle donne di potersi masturbare davanti a loro. Sempre sul New York Times la comica Laurie Kilmartin ha spiegato che “almost every female comic could name a comedy club she can’t walk into, a booker she can’t email or an agent she can’t pursue because of the presence of a problematic guy”. Un quadro che i comici maschi (mi ci metto io per primo) neanche si immaginano.
Detto questo, non mi piace chi omologa ogni tipo di abuso. C’è grado e grado e, senza scadere nel benaltrismo, possiamo convenire sul fatto che ci sono violenze peggiori, senza per questo voler assolvere Louis. Il quale, tra l’altro, sembra si fosse già scusato privatamente con le comiche coinvolte in passato, riconoscendo dunque lui stesso di aver sbagliato.
Nella lettera con la quale Louis C.K. ammetteva che le accuse erano vere, diceva che non si era reso conto che il potere che aveva nell’ambiente comico rendeva la sua richiesta di consenso (“Posso masturbarmi davanti a te?”) irrilevante, perché le comedian non erano nella condizione di dire no (o comunque erano in una condizione molto difficile per farlo). Leggendo quelle parole, sembrava proprio che il comico avesse compreso il punto. Per quanto ne sappiamo, inoltre, C.K. ha smesso di abusare della sua posizione. Si può discutere se un anno di allontanamento dalle scene (e la perdita di contratti) sia una “pena” sufficiente, ma tutto sommato mi sembra un tema di minore importanza.
A complicare le cose, o almeno la mia opinione in merito, c’è però il mestiere che Louis si è scelto (e nel quale è bravissimo), ovvero quello di portare sé stesso in scena. E arriviamo quindi a Sincerely Louis C.K. (2020), ovvero allo special nel quale lui parla apertamente di ciò che ha fatto e delle conseguenze che ha subito quando è stato scoperto. “Come sono stati i vostri ultimi due anni?” è l’innegabilmente divertente frase d’esordio, che unita a “I had to go to Poland to do shows” riepiloga il crollo seguito all’articolo del New York Times. Lo show procede poi con battute perfette (“Dovete ancora vedere le mie foto con la blackface”) e ragionamenti tutt’altro che scontati (“Quando finisci nei casini scopri chi sono i tuoi veri amici, ma fidatevi, non volete saperlo!”), propone il classico materiale targato C.K. (Dio, la morte di sua mamma, con tutta la prosaicità della situazione, l’ipocrisia, l’uso di parole come “ritardato”, la descrizione schifosa del suo fisico) e, nel finale, ritorna sull’argomento che tutti stanno aspettando: il sesso è bello proprio perché è perverso, proibito, fuori dall’ordinario; “Some people like when sex is a little fucked up” dice Louis. E con “Some people” ovviamente intende sé stesso. A quel punto chiede al pubblico se deve parlarne, e gli spettatori chiaramente rispondono unanimemente di sì. La tesi, espressa comunque sempre in maniera comica, è grosso modo la seguente. Se chiedete a qualcuno: “Posso farmi una sega davanti a te?” e dice di sì, chiedete: “Sei sicuro?”; e se dice di sì, non fatelo comunque. Non è sempre chiaro come si sentono le persone, spiega Louis; gli uomini dovrebbero assicurarsi che le donne siano a loro agio, ma le donne sanno come far sembrare che sono a loro agio anche se non lo sono. In tutto questo, ci piazza il parallelo tra i gemiti di piacere di una donna e gli spiritual degli schiavi che vale l’intero spettacolo, ma resta il fatto che questi passaggi non problematizzano sé stesso e sembrano invece suggerire che il problema di comunicazione sia totalmente a carico delle donne. Al di là delle battute in sé, è l’atteggiamento sempre compiaciuto con il quale vengono pronunciate, la complicità che ricerca nel proporle agli spettatori, che le rendono discutibili e in contrasto con quanto espresso nella lettera di scuse.
Eppure in passato aveva dimostrato ampiamente di riuscire a superare il suo punto di vista maschile sui rapporti uomo-donna: se in Hilarious ammetteva di capire la moglie che non voleva scoparlo, in Oh my God arrivava a dire che noi uomini “Siamo la maggiore minaccia per le donne”. A confronto con questi ragionamenti, sembra riduttivo stabilire che le comiche che gli hanno detto di sì non sono state molto chiare in ciò che volevano davvero. Nel live al Comedy Store C.K. sosteneva che se qualcuno ti dice che sei stronzo, non puoi dire di no, non spetta a te deciderlo ma agli altri. Devi accettarlo e chiederti come hai fatto a diventare stronzo. Di fronte alle accuse rivoltegli, lui se l’è chiesto?
E’ come se, nella contraddizione tra le scuse e il suo precedente materiale da una parte e le battute dedicate alle molestie dall’altra, Louis C.K. avesse realizzato in concreto il suo pezzo più celebre: of course nei rapporti il consenso è il risultato delicato di numerosi fattori dai quali non si può mai escludere una dinamica di potere della quale è fondamentale essere consapevoli, but maybe se ti chiedo di masturbarmi davanti a te e tu rispondi sì, allora posso farlo. Ma la grandezza di quel monologo stava nel reggersi su un equilibri precario, su una tensione (tra i pensieri “sbagliati” e la nostra moralità) che non si scioglieva mai, mentre le battute sulle molestie perpetrate non mostrano neanche la parvenza di un conflitto interiore. Ad oggi, come detto, l’unico commento al riguardo che C.K. ha fatto sul palco è questo e, lo ripeto, non mette minimamente in discussione sé stesso. Negli spettacoli successivi l’argomento è praticamente assente: Sorry (2021) inizia col Like a rolling stone, una canzone di Bob Dylan basata sulla stessa domanda che C.K. rivolge direttamente al pubblico provato dalla pandemia: cosa si prova? Come siete stati a vivere nel mondo in cui stavo già vivendo a causa di ciò che mi è successo? Poi passa velocemente ad altro: la pedofilia, con l’intatta capacità di legare effetto comico e logica apparentemente indistruttibile, che rende ancora più divertente il risultato; la pandemia, affrontata in maniera laterale rispetto a molto materiale già visto sull’argomento; dopo una parte centrale sempre divertente ma mai brillante, arriva di botto la routine su Will Hunting che forse non sarà il pezzo più riconoscibile di C.K. ma che ne dimostra l’intatta fantasia comica; un pre-finale sulla morte e a conclusione un monologo sulla fluidità di genere che parte bene (non è necessario essere boomer anche se si è vecchi) e poi si incaglia sui joke sugli eterosessuali progressisti di oggi che sono delle checche. Nello spettacolo che ha portato a Milano (sold out) ritroviamo il Louis C.K. uomo comune. Stavolta sfoggia pure degli occhiali, che accentuano il suo essere un everyman che guarda il mondo ed esprime il suo punto di vista. Stand-up comedy nella sua essenza più pura. Parla di tutto: come sempre della famiglia, delle figlie, usando il cinismo che lo contraddistingue. I pezzi che ho trovato più interessanti sono stati quelli sul suicidio, l’aborto, l’omicidio. Poi passa a cose più leggere: la routine sull’orchestra, Gesù e la maledizione del fico. Forse la seconda parte è meno sorprendente, ma è un oratore con una fluidità, limpidezza e precisione che non ha bisogno di volare altissimo per colpirti. Anzi, spesso è dal basso che trova i suoi spunti migliori. Si conferma un’esploratore del kink, concentrandosi sui fart porn. “Nulla di quello che dico sarà più divertente di una scoreggia, il primo dono di Dio all’uomo”.
Questa breve carrellata sui temi degli ultimi show serve anche a evidenziare un altro punto importante: se Louis facesse spettacoli nei quali parlasse solo delle molestie nei termini coi quali lo ha fatto in quei cinque minuti in Sincerely, probabilmente smetterebbe di interessare me e molti altri che sulla questione la pensano alla stessa maniera. Nel repertorio di C.K., per fortuna, quei momenti sono solo una piccola parte, che non inficiano l’altissima qualità del resto del materiale. Ciò non toglie che sia legittimo, da parte degli spettatori, valutare ciò che ha fatto e/o le battute al riguardo un superamento del limite e decidere dunque di smettere di seguirlo. Da parte mia, mi piacerebbe che elaborasse un pezzo sulle molestie che riesca finalmente a includere il punto di vista delle vittime e, soprattutto, che sia un’analisi comica dei propri errori. Resto convinto che se qualcuno ne è capace, quello è proprio Louis C.K.
Questa mia convinzione però, illumina la criticità insita nella percezione che da pubblico abbiamo dei grandi comedian: se ci piacciono tanto è proprio perché spesso riescono a raccontare anche i lati oscuri di sé stessi, ma la stima che proviamo per loro rischia di diventare idolatria, che sfocerà in rigetto violento quando non si riveleranno all’altezza delle nostre aspettative.
Pretendiamo che siano onesti, trasparenti, e sicuramente parte della loro arte consiste proprio nel togliere gli infingimenti, nel mostrarsi al pubblico nelle loro debolezze e fragilità. Ma portare sul palco la propria vita personale non è (non può essere) un meccanismo automatico. Nel 2019 dicevo che sarebbe stato strano che Louis non parlasse nei suoi spettacoli di cosa gli stava accadendo, ma oggi riesco a vedere anche l’altra faccia della medaglia, ovvero quanto è problematico che si dia per scontato che una celebrità condivida il suo privato. Rispetto ad allora, adesso ho più chiaro che per riuscire a raccontarsi in maniera così profonda serve un lungo percorso di auto-analisi che è tutt’altro che scontato e che comunque ha bisogno di tempi dilatati; capirsi, conoscersi, è una strada incognita che può non terminare mai. Farlo in maniera comica e coinvolgendo gli altri è un miracolo ancora più raro e straordinario, e l’unica cosa che possiamo fare è godercelo quando avviene.
Segnalazioni
Louis C.K. ha appena presentato un nuovo film, Fourth of July, scritto diretto e interpretato da lui, con protagonista Joe List.
Dave Itzkoff sul New York Times riflette su come George Carlin sia oggi nel pantheon di persone con opinioni diverse, se non diametralmente opposte, e su come sia discutibile pretendere di trarre conclusioni su quello che penserebbe Carlin dei problemi del nostro tempo basandosi sul suo repertorio comico senza considerare il contesto originale.
Negli archivi della Radiotelevisione svizzera si trovano diversi pezzi di cabaret, l’equivalente ticinese dei Gufi.
L’angolo autoreferenziale
Bollono in pentola diversi progetti, as usual, e as usual chissà quanti e quando vedranno la luce. Nel frattempo, sto scrivendo nuovo materiale e userò l’estate per prepararmi alle prossime stagioni.
Dove vedermi live
Il primo luglio condurrò la Monza Comedy Night. Con me ci saranno Giorgio Magri, Matteo Zaffarano e Giorgio Matta.
Il 9 luglio, invece, partecipo all’open mic di Radio Aut a Pavia.
Il video alla fine
Nell’ambiente, alludere alle vicende di Louis C.K. è diventata pratica comune, persino in Italia. Qui Pete Davidson rivela un aneddoto poco lusinghiero, giocando proprio sull’at the time. Il video a un certo punto sparisce, ma il racconto vale comunque la pena.
Ciao!