Jimmy Carr alla ricerca della battuta perfetta
Dopo il suo show a Milano, considerazioni su un one-liner ossessionato dai joke
Artigiani della comicità
Negli innumerevoli tipi e formati di comicità, la battuta rimane uno degli elementi più riconoscibili e usati. Fondandosi sull’uso delle parole e sulla capacità di assemblarle per generare la risata, scrivere battute significa sostanzialmente padroneggiare una tecnica. Moltissimi comedian sono concordi nel dire che buona parte della loro arte consista nel lavoro certosino col quale scelgono i termini, la disposizione e il ritmo delle frasi che costituiranno il monologo. Tra questi possiamo sicuramente annoverare il britannico Jimmy Carr, esempio perfetto dello stile one-liner, basato appunto su singole battute composte da un unico enunciato, quasi sempre slegate tra loro.
Dato che il 6 luglio si è esibito per la prima volta in Italia, al Teatro Arcimboldi di Milano, mi è sembrata l’occasione giusta per riguardarmi tutti gli show di Carr, disponibili sul suo canale YouTube, e trarne qualche considerazione su quello che mi piace definire artigianato comico.
In Jimmy Carr live (2004), la prima battuta era già un avviso sul contenuto esplicito e offensivo del repertorio; col tempo, il comedian si farà un nome proprio per i joke al limite, oltre che per la costante interazione col pubblico, che generalmente segue due schemi: la domanda diretta del comico agli spettatori o l’heckle, il disturbo da parte di questi ultimi. In entrambi i casi, la gag si conclude con nuove punchline, in una dimostrazione di improvvisazione (e di superiorità comica di Carr rispetto a chi lo punzecchia) che conquista la platea.
Tra le molte cose che il comedian chiede al pubblico, durante In concert (2008) c’è questa: “Scopereste vostro padre per salvare vostra madre?” e lo fa con la certezza che un interrogativo del genere non possa che portare a risposte divertenti, soprattutto quando avvengono di getto, superando la compostezza e la razionalità di un dialogo normale. Una signora risponde: “No, la lascerei morire” e gli altri spettatori disapprovano rumorosamente, ma Carr prende parola ed esclama: “State fischiando una che ha detto che non scoperebbe suo padre”. Tutti i quesiti di Jimmy funzionano così: non importa quale risposta venga data, farà comunque ridere, grazie anche all’allenamento che gli consente di esaltare l’aspetto comico di ciò che dice il pubblico.
A fronte del successo di questa formula, negli anni il comedian è stato criticato perché la sua non sarebbe vera interazione, ma farsi servire le risposte per battute preparate. In Telling jokes (2009), ad esempio, dopo aver parlato di molestie, si ferma, dice di aver notato un ragazzo particolarmente giovane in platea, e gli domanda se ha capito la battuta precedente; questa sequenza è palesemente costruita, non nel senso che lo spettatore sia un complice ma nel senso che Carr sceglie volutamente quel momento dello show per poter fare il siparietto successivo con un bersaglio che sicuramente aveva adocchiato prima. In altri casi è vero che il suo personaggio (un compassato posh molto british, che non si concede mai sbavature) può risultare un po’ freddo e meccanico nel rispondere al pubblico, ma è innegabile che il risultato sia comunque esilarante per gli astanti. In realtà, credo che il più delle volte tutto avvenga in maniera spontanea (per quanta spontaneità può esserci in uno spettacolo). Ma anche quando l’accusa regge, ad esempio in The best of, ultimate, gold, greatest hits (2019) che è appunto una raccolta col meglio del suo repertorio e che presenta risposte del pubblico praticamente identiche a quelle degli show precedenti, il meccanismo funziona comunque bene perché Carr ha tanto mestiere che gli permette di apparire estemporaneo nel controbattere o quanto meno di elaborare davvero le sue risposte in base al feedback ricevuto. Come al solito, il confine tra tecnica e estro è sottile.
Un discorso a parte merita Being funny (2011). Se generalmente il crowd work funziona anche quando non è d’altissimo livello, proprio per il suo carattere casuale, qui il lavoro col pubblico fagocita lo spettacolo che per i primi quaranta minuti è fatto solo dell’interazione con gli spettatori: la durata sovrabbondante e la posizione iniziale nella scaletta trasformano il crowd work da divertente momento improvvisato a un troppo lungo incipit in cui lo spettacolo non inizia mai davvero e non vengono proposte vere e proprie battute scritte, ma un repertorio un po’ cheap comprendente 20 minuti di imitazioni di accenti (provate a pensare a un comico italiano che fa altrettanto con i dialetti regionali).
Un altra caratteristica degli special di Carr presente sin dal primo show è l’alternanza tra situazioni create sul palco: dopo neanche dieci minuti, il comedian si siede su un divano; diversivo che userà spesso negli spettacoli per ovviare ad uno dei problemi principali che i one-liner devono affrontare, ovvero il rischio di stancare il pubblico con la formula della sequela di battute secche. Immaginatevi un’ora e passa di frasi sconnesse tra loro: anche nei casi, come quello di Carr, nei quali la qualità dei joke sia molto alta l’effetto assuefazione e la fatica da accumulo sono dietro l’angolo. (Ora immaginate che io ho visto tutti gli show uno dietro l’altro, e capirete perché ho fuso il cervello). Ecco un elenco di tutti gli stratagemmi coi quali Carr spezza la monotonia nel suo repertorio: oltre all’accomodarsi sul divano, va alla scrivania, dove recita finti annunci proiettati sullo schermo dietro di lui (“Incurable romantic seeks filthy whore”); propone il suo romanzo epistolare; si fa intervistare dal pubblico; tira fuori un appendiabiti con delle magliette che riportano alcune battute; proietta dei joke sullo schermo prima della sua entrata; presenta dei biglietti di auguri sui generis; dà suggerimenti su come compilare una domanda di impiego; risponde alla posta del cuore; rivisita classiche battute per bambini; legge recensioni in apparenza positive, gettando il dubbio che possano significare il contrario; si cimenta in una poesia (comica); fa entrare un trio jazz che si mette a suonare, mentre lui sciorina alcune “ideas”; offre consigli ai single; mette insieme spunti per la sua autobiografia. In tutti questi casi, alla fine, Carr fa quello che fa sempre, ovvero one-liner, ma riesce a vivacizzare il ritmo della serata separando il materiale in blocchi più o meno auto-sufficienti.
Anche dal punto di vista tematico, l’intento di Carr è già chiaro sin dal primo show: it’s just a joke, lo dice lui stesso, sono solo battute. Ed è in questa affermazione perentoria che si nasconde tutto il fascino e l’ambiguità del one-liner, e a maggior ragione di chi come Carr lo utilizza quale strumento per alzare sempre l’asticella in termini di provocazione. Lo schema set-up - punchline ha una potenza comunicativa imbattibile: se costruito bene, un joke di questo tipo è esplosivo, carica le aspettative del pubblico per poi dirottarle dove non si pensava, meccanismo che sta alla base della risata. Come detto, è una tecnica, con regole precise, e come tutte le tecniche prescinde dal contenuto, nel senso che funziona a prescindere dal messaggio che veicola. Se l’intento del comedian è il raggiungimento della perfezione nella costruzione della battuta, allora l’argomento può diventare secondario. Nel caso di Carr, la scabrosità, il politicamente scorretto, il too much, sono ingredienti che aumentano la forza del joke. Più è al limite, più grande sarà la reazione del pubblico. Il fatto che, nonostante il suo repertorio consti anche di numerose arguzie leggere, espressioni del wit tipicamente britannico, toni più surreali e stralunati (alla Wright o alla Hedberg), quello che si ricorda di lui è il materiale dark dimostra che l’effetto di quest’ultimo sul pubblico è maggiore.
Quando parla di gay, sordi o nani, prende in giro Stephen Hawking, sfotte le persone grasse, imita i “retarded”, l’obiettivo è sempre e solo far ridere, sfidando sé stesso e il pubblico per vedere dove si può arrivare. E allora si capisce perché per tutta la carriera ha fatto e continua a fare battute sulla pedofilia, sulle violenze domestiche, sullo stupro: sono degli stress test, che funzionano proprio perché vanno a toccare le cose peggiori possibili sulle quali scherzare. Persino il joke finale di Being funny (2011), che risponde al quesito “Come si fa a far scopare una donna ad un gay?” in maniera estremamente brutale, non ha altro scopo che suscitare la risata. “Non c’è nessun messaggio” conferma Carr “Nessuno imparerà qualcosa questa sera”.
E’ virtuosismo allo stato puro: all’inizio di Telling jokes afferma di aver fatto qualcosa come 60 battute in 10 minuti; per farne ancora di più, deve inventarne di molto corte, quindi si cimenta con un joke di sole tre parole, poi con uno di due. E’ impossibile non riconoscere una passione da artigiano del linguaggio. “I’m quite obsessed by jokes”, spiega lui.
In quanto virtuosismo, quella di Carr è una tecnica fine a sé stessa, non in senso negativo ma nel senso che non rimanda ad altro, non pretende di comunicare qualcosa aldilà dell’effetto divertente. Lui lo dice chiaramente, ed in qualche modo questo aiuta ad incorniciare correttamente le sue battute, a leggerle per quello che sono (just a joke, appunto) e a goderne senza doversi porre dubbi morali.
Nel finale di Stand up (2005), mentre scorrono i titoli di coda, vediamo una domanda del pubblico che evidentemente non è stata inserita nello special. Un ragazzo chiede un consiglio dato che il suo cane è morto. “Di cosa?”, chiede Carr. Di cancro, risponde lo spettatore. E il comedian commenta: avevamo già un cane morto, ci aggiungiamo il cancro. E’ oro per la comicità! Questo spiega molto di lui e conferma che c’è una ricerca consapevole di temi delicati da usare come propellente comico. Come chiusa perfetta a questo ragionamento, Carr domanda speranzoso: “Non è che per caso ha preso il cancro da un pedofilo?”.
Insisto molto sulla cornice che Carr prepara per le sue battute perché è essenziale tenerla presente, altrimenti risulterebbe incomprensibile la dinamica che instaura col pubblico. Innanzitutto, ribadisco che la formula one-liner accentua la prevalenza della tecnica sul messaggio: se il joke non è inserito all’interno di un discorso più ampio (come avviene nei monologhi a tema), è più facile accettare che sia solo una battuta. Come lui stesso riconosce, poi, quando la tecnica è quella del gioco di parole, il joke edgy viene percepito come meno offensivo proprio perché non pertiene al campo delle idee e dei significati (sono le idee e i significati a offendere, non i trucchi verbali) ma a quello dei significanti: “Throwing acid is wrong in some people’s eyes” non dice nulla di vero, di concreto, di discutibile sugli assalti con l’acido.
La cornice, fatta di distacco nel recitare le battute, meta-riflessioni sulla comicità, continuo richiamo all’idea che it’s just a joke, permette a Carr di proferire le atrocità peggiori senza essere preso mai un attimo sul serio. Gli esempi potrebbero essere decine; in Comedian (2007) esordisce dicendo che si è scopato la mamma di uno del pubblico e stabilisce le regole: se vieni a uno show comico, ti devi aspettare succedano cose così, devi essere predisposto a riderci. Successivamente, chiede a una diciassettenne cosa fa sessualmente, mentre in Telling jokes dice che come regalo ad una del pubblico che quella sera compie sedici anni darà più di un autografo, le farà un ditalino. E’ chiaro che se ci fosse anche un minimo di ambiguità sul fatto che sia tutto un gioco, questi approcci sarebbero molestie, invece vengono accettata da tutti (vittime comprese) come esilaranti intermezzi, anche perché Carr esprime le sue sferzate senza mai dare segno di cattiveria né apparire aggressivo. Tanti altri comici interagiscono con la platea in maniera più viscerale e per questo l’effetto che ottengono è più ambivalente, come se ci fosse qualcosa di personale.
Prendendo alla lettera alcune battute di In concert (2008), ma anche altre della sua carriera, si arriverebbe alla conclusione che Carr sia un pedofilo e uno stupratore. Se non succede è perché è cristallino che nulla di ciò che dice sia vero e vada preso seriamente. Mentre l’umorismo dark di Louis C.K. inquieta, perché ragiona sui temi oscuri che affronta, quello di Carr provoca risate senza ulteriori implicazioni, perché per lui gli argomenti sono solo fuoco col quale scherzare. “Where’s the best place you performed in?” chiede qualcuno dal pubblico. “I have to say in your girlfriend. It’s the law!” risponde Carr, e la parte interessante è “I have to”: per questo comedian è un dovere fare una battuta quando c’è occasione di farla. Se si apre uno spazio per andare oltre, bisogna andarci.
Terribly funny, lo show andato in scena a Milano, è in linea col percorso artistico di Carr. Appena entrati agli Arcimboldi, sul maxischermo ci viene mostrato un numero di telefono al quale si può scrivere una domanda, un compleanno, un joke o un heckle, alcuni dei quali saranno poi mostrati durante lo spettacolo, come già succedeva in Funny business (2016), primo capitolo di quella che finora è una trilogia targata Netflix. Ciò è indicativo del livello che ha assunto l’interazione col pubblico nelle esibizioni di Carr: siamo oltre al marchio di fabbrica, sfioriamo il prodotto industriale; ottenere una risposta dal comedian è come comprare la foto dopo il Colorado Boat.
Introdotto come una star, tra luci strobo e I need you degli Hedrons, Carr sale sul palco, che ospita solo uno sgabello e due bottigliette d’acqua. Il pubblico lo accoglie molto calorosamente. Seguono due ore che mi sono molto piaciute, costellate dal classico repertorio del comico: prostitute cieche, violenze domestiche, aborto, preti pedofili, stupro; cita anche le persone transgender, ma come ogni argomento anche questo è un pretesto per far ridere, non c’è il livore di Chappelle, e questo (oltre alla bravura tecnica) rende tutto meno controverso, pur rimanendo sempre sul confine.
Stavolta mette all’inizio le battute offensive, e ad un certo punto si ferma per fare il riepilogo dei temi scabrosi trattati fino a quel momento. Anche dal punto di vista concettuale, riafferma la sua posizione: quelli che lui fa sono joke, non statement, e rivendica accoratamente (pur nel suo modo trattenuto) il diritto di fare battute. Certe persone dicono che non si può più dire niente? “Watch me now” esclama, con una certa dose di compiacimento. Nello show Carr si dimostra anche capace di andare oltre la sua nomea di provocatore senza scrupoli: quando chiede a un diciottenne in quali occasioni secondo lui è lecito tirar fuori il cazzo, sotto alla leggerezza prosaica c’è tutto un discorso serio sul consenso che non mi aspettavo dal suo personaggio.
Come sempre, gestisce alla grande l’interazione col pubblico: uno dei momenti più forti avviene quando chiede se ci sono no-vax in sala e, dopo una risposta ambigua, stabilisce che la persona interpellata sia un antivaccinista, imbastendo una serie di allusioni che andranno avanti per tutta la serata; mi è sembrato “rischioso”, pur nei limiti di quella che comunque è finzione, attaccare (comicamente) uno spettatore sulla questione Covid-19, perché è uno di quei temi che creano davvero grandi tensioni e gli effetti delle battute, così come le reazioni della vittima, erano più imponderabili che in altri casi.
Rispetto ad altri show, in questo Carr si è lasciato andare a momenti più personali; in parte era già successo in His dark material (2021), quando mettendo a confronto le tecnologie contemporanee col passato aveva espresso un suo punto di vista, quello di un uomo non più giovane. In Terribly funny c’è uno sviluppo ulteriore: a volte la sua vita resta solo un pretesto per una serie di battute sottilmente legate da un fil rouge, come quando annuncia di esser diventato padre, ma in altre occasioni sembra proprio abbandonare il suo solito distacco e parlarci con più sincerità. Certo, ammettere di aver fatto il trapianto dei capelli non è una rivelazione scottante come se ne sentono negli special di altri performer, ma quando ha raccontato del figlio nato prematuro, rinunciando alla punchline per qualche minuto, si sono avvertiti ascolto e tensione reali per questa parte più intima. In generale, dal vivo mi è sembrato più empatico, ma forse questo vale per tutti.
Carr è un maestro nell’arte di confezionare un joke, che nel tempo ha saputo imporre la sua visione della comicità ponendosi a fianco dei grandi interpreti della nostra epoca. Se prima ho parlato di ambiguità riguardo al one-liner, è perché, come tutti gli approcci, anche quello di Carr può essere messo in discussione, senza sminuirne il valore.
Il primato della tecnica sul contenuto, ad esempio, presta il fianco all’accusa di non avere anima. In effetti, un’ora di battute secche è un’esperienza molto diversa dal medesimo lasso di tempo passato ad ascoltare un comedian che parla di sé stesso o di politica. Ci sono diverse sfumature e il passaggio dal freddo elenco di joke all’accorato monologo intimista è senza soluzione di continuità, ma tutti quelli che si cimentano nel one-liner (e parlo per esperienza personale) devono ragionare molto attentamente su come mantenere vivo il rapporto col pubblico.
Bisogna anche rilevare che le battute pensate come offensive (con le quali è solito chiudere gli show) funzionano sempre perché sono scritte benissimo, ma non offendono nessuno: in Telling jokes, ad esempio, l’elenco conclusivo comprende, nell’ordine, la Principessa Diana, le Torri Gemelle, i bambini “ritardati”, la zoofilia, il felching (cercatelo, non rimarrete delusi), l’aborto, i bambini molestati, lo stupro, Hitler e Pol Pot, in un crescendo di provocazione che però invece di provocare il pubblico lo esalta, perché ha pagato proprio per quello. Se analizziamo l’interazione con gli spettatori da questo punto di vista, gli show di Carr potrebbero apparirci come strani riti nei quali le persone gli gridano contro ben sapendo che non potranno vincere e che verranno insultate; ma sta proprio qui il divertimento: esser coinvolti nell’abilità del comedian, ottenere, attraverso una battuta sulla propria madre, un momento di celebrità.
Questo tipo di comicità amplifica una questione che riguarda tutto il genere: il patto tra il comedian e gli spettatori. Paradossalmente, oggi Carr deluderebbe i fan se non facesse battute offensive. Il rapporto con la platea si è modificato anche per quanto riguarda i disturbatori: in Being funny (2011) nota come, adesso che è famoso e che la gente paga i biglietti per andarlo a vedere, non ha più gli hecklers di una volta, quando si esibiva nei club e “the venue was bigger than the name”, perché, nei contesti più “teatrali” nei quali si esibisce (ovvero le grandi arene) la gente preferisce stare zitta, non esagerare, per non rovinare la serata agli altri. Lo show di Carr si è in qualche modo istituzionalizzato. La celebrità ha modificato il senso della sua comicità, facendole perdere almeno in parte la carica eversiva. Allo stesso modo, un comico satirico rischia di predicare a un auditorium di persone già convinte. Ma la comicità dovrebbe essere tensione e stupore: come si mantengono? Forse può aiutare ricordarsi che il compito del comedian non è quello generico di provocare, ma di provocare specificamente il pubblico per il quale si sta esibendo, tenerlo sulle spine, e se la platea è abituata ad un certo tipo di provocazione, scovare nuovi modi per coglierla impreparata.
Nonostante Carr abbia una cultura comica profonda e dimostri in più occasioni di aver riflettuto a lungo sul suo mestiere, a volte si cimenta in difese poco convincenti: in Funny business, ad esempio, sostiene che lui scherza molto su sessismo e misoginia perché le considera cose risibili. Però lui non fa battute sul sessismo, fa battute sessiste. Che poi le faccia tanto per farle non lo metto in discussione, ma per sostenere di voler prendere in giro il sessismo dovrebbe aggiungere un livello di lettura ai suoi joke che invece non c’è.
Analogamente, quando in His dark material racconta di una sua performance in un ospizio spiegando che ha fatto battute sul cancro ed è riuscito a sconfiggere per un momento la malattia a suon di risate, pur essendo in linea di massima d’accordo che una delle funzioni della comicità sia proprio quella, non riesco a non vedere anche un problema per come ha posto lui la questione: non era Carr ad avere il cancro, ma gli spettatori che “subivano” i suoi joke. E con questo non voglio dire che solo chi ha il cancro ne può parlare, ma che il valore terapeutico della comicità dovrebbe stabilirlo chi la malattia ce l’ha.
Infine, è discutibile anche l’assunto alla base della filosofia di Carr, secondo il quale le battute sono solo battute. C’è tutta un’altra corrente di pensiero che sostiene che ogni joke veicola un frame attraverso il quale leggiamo la realtà e che quindi ogni battuta suggerisce un punto di vista sui temi che tratta. In effetti, è innegabile che spesso Carr si appoggi a stereotipi: quello che dice sul rapporto uomo-donna risponde a un livello basico di conflitto comico; chiama in causa gli abitanti del Norfolk trattandoli da redneck inglesi; scherza sulla puzza degli zingari; anche se dice costantemente che non c’è problema a essere gay, spesso le battute al pubblico riguardano l’essere omosessuale. Di nuovo, non si tratta di accusare Carr di razzismo, maschilismo, omofobia, ecc. ma di ragionare sulle implicazioni di sfruttare gli stereotipi nei propri pezzi e su come eventualmente maneggiarli con cura.
In Stand up, ad un certo punto il comedian dice che una donna con due occhi neri è una donna alla quale è stata spiegata una cosa due volte e non ha capito. Qual è il senso di questa battuta? In quale contesto può avere un senso? La risposta dell’autore è probabilmente contenuta in una domanda retorica presente in Funny business, “E’ giusto dire qualcosa di sbagliato al 100% se è divertente?”, e nei passaggi di His dark material nei quali rimarca la differenza tra la “cosa terribile” e la “battuta sulla cosa terribile”. Credo però non basti a risolvere del tutto il problema: vale la pena interrogarsi su tutti gli ingredienti che fanno o dovrebbero far scattare la risata in questo caso: aldilà della tecnica, mi pare che a far ridere concorra il fatto che quella frase attivi l’immagine (che volenti o nolenti abbiamo tutti introiettato) del maschio che deve far capire le cose alla femmina, la quale genera problemi proprio perché non capisce. Non dico che quest’ultimo aspetto sia prevalente per la riuscita della battuta: probabilmente nella testa di ognuno ci sono vari fattori oltre a questo (ad esempio il gusto per il dark humor) che trovano un equilibrio diverso a seconda di chi siamo; ma credo la nostra visione delle relazioni tra i sessi contribuisca a farci apprezzare o meno la battuta. Un comico non può ignorare che aldilà delle proprie intenzioni i joke attivino meccanismi nel pubblico e che almeno in parte questi meccanismi siano prevedibili dal comedian stesso, che sceglie di fare certe battute anziché altre proprio aspettandosi reazioni precise dalla sua platea.
La famigerata battuta sull’Olocausto e gli zingari di His dark material è un caso ancora più lampante di ambiguità: io capisco che Carr davvero la consideri una delle tante battute, e certamente chi se la prende e minaccia ritorsioni ha compreso davvero poco di lui, ma d’altra parte mi chiedo: qual è lo scopo di una battuta simile? L’essere one-liner le toglie qualsiasi tipo di contesto, e quindi può essere interpretata in qualunque modo: non c’è modo di confutare chi sostiene che quella battuta sia fascistoide, e allo stesso tempo non c’è modo di smentire chi sostiene il contrario. Se davvero il contenuto fosse del tutto irrilevante, Carr non insisterebbe sui temi scottanti: è invece evidente che ciò di cui ride ha un certo peso sulle battute che sceglie di fare.
E’ vero che la tecnica è tutto, ma non è irrilevante per cosa la sia usa. Un trucco di magia ti affascina e stupisce, ma se serve a fregarti dei soldi lo vivrai in maniera diversa.
Ritorna dunque centrale il concetto di cornice, anche per fare un discorso più ampio che non riguarda solo Carr: se lui si è costruito una reputazione d’un certo tipo e con professionalità e bravura si è guadagnato la possibilità di superare il limite proprio perché ha saputo inserire ogni sua singola battuta in un contesto preciso (che lui ricorda a ogni piè sospinto), lo stesso non si può dire di molti suoi emuli, vuoi per inesperienza, vuoi per minor fama (che implica che il pubblico non sappia cosa aspettarsi e non abbia stipulato col comico il patto di cui ho parlato prima), vuoi perché non gliene frega niente di questo discorso e desiderano solo fare battute su Bebe Vio. Come sempre, io sono totalmente libertario: guai a censurare. Ma sono anche sostenitore di una comicità che accompagni la libertà di dire tutto a una forte consapevolezza sui propri strumenti artistici, sul loro uso, e sugli effetti che generano.
In conclusione, e dopo diverse ore passate a sentire one-liner a raffica, mi viene da pensare che quella praticata da Carr è un’arte che ha un’aura più antica rispetto alla stand-up comedy intesa come monologo in cui il comico racconta cose, esperienze, punti di vista. Si riporta la comicità a uno dei suoi significati ancestrali: usare le parole in maniera non convenzionale per ribaltare la realtà. Dire una cosa che non si può dire può sembrare infantile, e in molti casi lo è, ma mantiene una potenza misteriosa che non può essere ridotta razionalmente. E Carr, ogni volta, ci ricorda il valore di quest’atto di ribellione.
Segnalazioni
Un tranquillo sabato sera in un comedy club. A Lviv, Ucraina.
Su Vice ho trovato questo articolo di una persona transgender che racconta la sua esperienza (difficile) nell’ambiente della stand-up comedy.
Vogue racconta l’ascesa della stand-up comedy femminile in Cina.
L’angolo autoreferenziale
Ho avuto l’onore di collaborare alla stesura del testo del nuovo show di Daniele Raco, Il vecchio e il male, che debutterà il 3 agosto a Genova.
Dove vedermi live
Mi metto in pausa fino a settembre, quando ricominceranno le varie attività. Colgo però l’occasione per ricordarvi che, se gestite una rassegna o conoscete locali che vogliono ospitare serate di stand-up comedy, potete scrivermi alla mail nicolacampostori@gmail.com. Poi magari un giorno apro un profilo OnlyFans.
Il video alla fine
Mi è piaciuto questo pezzo di Giulia Usala perché parla di aborto proponendo un punto di vista e un linguaggio che è ancora raro trovare nei monologhi sul tema.
Siamo quasi arrivati al secondo compleanno di Tendenza Groucho! Ne parliamo bene il mese prossimo. Daje!