A qualcuno piace mockumentary
Molti conoscono Ricky Gervais per i suoi spettacoli di stand-up comedy e per la fortunatissima serie The Office. Qualcuno lo ha visto anche in After life, su Netflix, e alcuni se lo ricordano nei panni di Andy Millman in Extras. In pochi, probabilmente i più nerd dell’umorismo, sanno che il comedian inglese ha realizzato anche un’altra serie TV, Life’s Too Short. Oggi ve ne parlo.
(Per completare la lista delle cose fatte da Gervais per la televisione bisognerebbe citare anche Derek).
Prima di iniziare, un disclaimer. Credo che l’espressione corretta per le persone nane sia, appunto, “persone nane”. Ma magari mi sbaglio. Se è un errore, vi chiedo comprensione; segnalatemelo, ma con la cortesia che contraddistingue ogni discussione virtuale. Fine disclaimer.
Scritta assieme a Stephen Merchant, già coautore di The Office, Life’s Too Short è andata in onda per la prima volta a fine 2011 ed è composta da 8 episodi, l’ultimo dei quali è uno speciale di un’ora prodotto due anni dopo.
Si tratta di un mockumentary su Warwick Davis, attore nano (ha recitato in Harry Potter ed è stato l’ewok Wicket W. Warrick ne Il ritorno dello Jedi) che qui interpreta una versione parodizzata di sé stesso; la serie racconta i suoi tentativi di procacciare ingaggi per sé e per gli altr* attori e attrici nan* ai quali e alle quali fa da agente.
I primi minuti dell’episodio 1 impostano non solo la trama, ma anche il tono della narrazione. Intervistato per il falso documentario, Davis dice che questo progetto è nato perché “Di solito vedi un nano in tv ed è lì che fa dei balletti e si rende ridicolo. Io voglio che la gente veda un nano sofisticato e raffinato che vive con dignità”. “Sono un modello da seguire. Sono un po’ come Martin Luther King” dice seriosamente, mentre le immagini ce lo mostrano che cade scendendo dall’auto. E se obiettate che le persone nane non hanno subito la schiavitù che hanno subito gli afrodiscendenti, lui risponderà prontamente che forse è vero, ma è altrettanto innegabile che non ha mai visto un afrodiscendente sparato da un cannone.
In merito al protagonista, Gervais ha dichiarato che si rifiuta di vivere come una persona disabile; in fase di scrittura, hanno voluto dargli sia dei punti di forza che delle debolezze. Sicuramente spiccano molto le seconde: il personaggio di Davis rompe gli stereotipi buonisti, essendo egoista, geloso, superbo; non esita a passare sopra gli altri quando si tratta di emergere ed è capace di pensieri davvero sgradevoli.
Ma quello su cui insiste la serie è soprattutto la grande finzione che Davis cerca di mantenere di fronte a chi gli sta attorno, ovvero quella di essere un grande attore sulla cresta dell’onda. I ruoli più importanti appartengono però al passato, nuovi ingaggi tardano ad arrivare e, con un grande contenzioso aperto con la banca, deve trovare al più presto modo di sbarcare il lunario e far ripartire la propria carriera.
Come in The Office, le telecamere seguono il protagonista nella sua vita quotidiana. Questa intrusione, per quanto voluta dallo stesso Davis, provoca l’umorismo di cui è impregnata la serie; improvvisamente, senza che lui lo voglia o lo abbia programmato, emerge la verità sulla sua vita, che contraddice l’immagine che l’attore vuol dare di sé stesso. Scopriamo ad esempio che non è più sposato nonostante lui persista nel voler mantenere le apparenze della coppia felice con la ex moglie.
A quel punto lo spettatore è costretto a provare per Davis quel sentimento che sta sul confine tra l’imbarazzo (se non la pena, condivisa con chi gli sta accanto) e il divertimento. E’ una linea sottile, che genera una comicità non da risate grasse, non pura, ma sempre un po’ contaminata da altre reazioni.
L’equilibrio perfetto è ottenuto nel finale dell’episodio 2, quando Davis, sospinto come al solito dal suo narcisismo, interviene al matrimonio di due fan di Star Wars al quale è stato invitato per fare un discorso che nelle sue intenzioni dovrebbe alleggerire l’atmosfera e nei fatti provoca invece disagio, indignazione e turbamento fino alle lacrime della sposa. Il tutto con lui che indossa un costume da orsacchiotto di peluche.
Detto della natura di questo tipo di umorismo, va precisato che guardando la serie si ride, e parecchio. Il primo motore del divertimento è ovviamente Davis, con le sue disgrazie e coi suoi difetti; ma anche le diverse persone che incontra, molte delle quali non sono meno squallide di lui, creano situazioni comiche delle quali sembrano non accorgersi. In effetti, la dinamica è molto spesso “uno contro tutti”: chiunque, tranne l’interessato, capisce quanto sia cringe. Gervais è spietato nel mostrarci un’umanità impreparata, pasticciona, disperata e senza dignità, ma anche ottusa, becera, cattiva. I personaggi si incaponiscono, tengono il punto nonostante ogni evidenza, e facendolo peggiorano la situazione, così come si scavano la fossa da soli continuando a parlare senza che nessuno glielo abbia chiesto e rivelando così informazioni imbarazzanti sul proprio conto. Alcune delle parti più belle sono quelle in cui l’autore raggiunge i più alti livelli di ferocia; lì la sua comicità si fa al vetriolo, ed è un acido gettato in faccia a noi spettatori, che usciamo dalla visione ghignanti ma disturbati.
Il modo in cui Gervais affonda il coltello mi ha ricordato il sadismo che Paolo Villaggio ha usato su Fantozzi, con una differenza che forse è importante: l’attore italiano umiliava sé stesso (il personaggio lo interpretava lui), mentre Gervais si accanisce su un protagonista diverso da sé (anche se, a onor del vero, riserva anche a sé stesso una figura meschina nell’episodio 4). Questo crea senz’altro più ambiguità, c’è sempre il rischio di ridere di Davis sposando la mancanza di empatia che viene mostrata in scena, ma è proprio questa pericolosa tensione a rendere il tutto molto interessante.
I vari camei presenti nelle puntate amplificano questo schema. Gervais ha gioco facile nel mostrare gli attori famosi come eccentrici, sideralmente distanti dai comuni mortali e per questo perfetti per fare la parte di chi si rende ridicolo agli occhi del mondo. Johnny Depp è un narcisista maniacalmente concentrato sul suo prossimo ruolo (quello di una persona nana), Helena Bonham Carter una stronza schifata dalla presenza di Davis. Tra le altre apparizioni speciali, molto divertente quella di Liam Neeson, che sogna di fare improvvisazione comica.
Paradossalmente, però, a volte questo meccanismo mostra troppo il suo carattere di finzione: nessun* nella vita direbbe alcune delle cose che dicono i e le protagonist*, che però teoricamente dovrebbero essere filmat* nella vita “vera” e quindi dovrebbero parlare in maniera naturale e un minimo coerenti alle aspettative sociali, cosa che evidentemente ogni tanto non succede. Così come alcuni sketch sono costruiti su presupposti troppo inverosimili, pensati solo per arrivare alla gag, e risultano così telefonati o poco divertenti.
E’ normale che, a fini comici, le situazioni siano esagerate, ma ovviamente così ci si allontana dalla realtà, rimanendo però all’interno di un racconto che vorrebbe essere un documentario. Questa discrepanza stona.
In un contesto tanto iperbolico, è perfetta la scelta di Rosamund Hanson nel ruolo della segretaria: l’attrice dà vita a un personaggio smaccatamente assurdo, in perenne sfasamento rispetto a ciò che le succede intorno e per questo molto spassoso. Meno riuscito, nonostante l’interpretazione perfetta di Steve Brody, è il commercialista di Davis: l’attore è esilarante ma il personaggio è davvero troppo poco credibile.
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Pur non ponendola al centro del racconto, Life’s Too Short propone anche una riflessione su come vengono trattate le persone nane dalla società, che le considera ancora solo in termini di esseri buffi, usati per il divertimento degli astanti, senza alcun riguardo per la loro dignità. Come ho detto, Davis non è una brava persona e questo è evidente anche quando parla delle altre persone nane: di fronte ai loro tentativi di emancipazione dal ruolo di freak, il protagonista afferma più di una volta che i loro sogni sono malriposti perché non possono fare altro nella vita, ambire a lavori “normali”. E’ forse questo uno degli aspetti più biasimevoli di Davis: la sua lotta per l’affermazione è totalmente individualistica e basata non sulla convinzione che le persone nane meritino l’uguaglianza ma su quella che lui, e solo lui, meriti di meglio dalla vita.
L’episodio 5 ha una trama emblematica, che ci aiuta ad avvicinarci al cuore della serie: Davis ha cominciato a frequentare Amy, anche lei una persona nana, e sembra che sia l’inizio di una bella relazione. Ma al secondo appuntamento litiga col maître che dà per scontato che lui stia uscendo con una donna nana perché uno come Davis non ha possibilità con altri tipi di donne.
Questo diverbio scatena l’ossessione del protagonista: quella di avere una vita uguale agli altri, nella quale la sua statura non abbia rilevanza. Il risultato è che Davis rovina tutto con Amy, lasciando lo spettatore col dubbio che forse non avrebbe dovuto tentare di essere considerato al pari degli altri.
Ecco allora che l’ambiguità di cui parlavo prima diventa un elemento centrale della narrazione: evitare i buoni sentimenti è un pregio della serie, a volte però la comicità che si abbatte sul protagonista sa troppo di punizione per aver osato nutrire speranze. Davis fallisce qualunque cosa faccia e fatica a reggere il personaggio che vorrebbe essere di fronte agli e alle altr*; il falso sorriso con cui è solito presentarsi si incrina sempre più. Il suo peccato è l’orgoglio, e lo pagherà in tutti (e più divertenti) modi. L’attore è molto bravo ad esprimere i sentimenti laceranti che lo animano, a trasmettere con un cambio di sguardo il passaggio dalla sicurezza ostentata e sbruffona alla disperazione che lentamente cresce assieme alla consapevolezza di quanto in basso stia cadendo.
Episodio dopo episodio, Davis perde tutto. Un accanimento che forse risulta esagerato agli stessi creatori della serie, che infatti decidono di chiuderla con un finale aperto, speranzoso dopo tanta catastrofe, che rimarrà tale fino alla realizzazione della vera ultima puntata di Life’s Too Short che, come ho detto, verrà riportata in vita a due anni dal settimo episodio per un ultimo special di un’ora.
L’ottavo episodio inizia con un cambio repentino: “Mi chiamo Warwick Davis. Sono un attore. Sono un agente. Ed ero una piccola merda egoista, infida e bugiarda”. E’ arrivata per lui la consapevolezza: riconosce che sfruttava i suoi clienti, era in competizione col nuovo partner della sua ex moglie e in generale che ha fatto cose disdicevoli. Si comportava così, ammette, perché non era felice. Ora invece lo è, per merito di Amy, la ragazza nana che ha ripreso a frequentare. Colmo di voglia di riscatto, organizza uno spettacolo per tre ferri vecchi della TV suoi amici, facendoli esibire in un classico pub inglese. L’intera sequenza sembra provenire da un’altra serie, con atmosfere alla Full Monty e facce working class alla Ken Loach. Contemporaneamente, Val Kilmer lo va a trovare per dirgli che finalmente verrà fatto il sequel di Willow, il film del 1988 diretto da Ron Howard e ideato da George Lucas nel quale Davis era protagonista: in pratica, un’enorme possibilità di rilanciare la sua carriera.
Questo special, molto piacevole, non c’entra quasi nulla con lo stile degli altri sette episodi: qui si privilegia il racconto, complice una durata maggiore della puntata, e vi sono meno gag. L’obiettivo abbastanza chiaro è dare una conclusione definitiva alla storia, dato che l’intento iniziale di rinnovare la serie per una seconda stagione non è stato portato avanti.
Senza fare spoiler posso dire che, nonostante un po’ di spaesamento questo finale di stagione me lo abbia dato, Gervais non ha perso il suo cinismo. Ha voluto solo diluirlo con (incredibile a dirsi, per lui) dei sentimenti. Probabilmente lungo il percorso il dosaggio non è stato perfetto (dall’assenza totale all’eccessiva abbondanza), ma negli ultimi minuti della serie riesce invece a trovare una formula convincente. L’ambiguo messaggio della serie (Davis deve rassegnarsi al fatto che non sarà mai come le altre persone? Ha sbagliato a provarci?) si stempera con una conclusione meno estrema che mi ha lasciato con la dolce sensazione malinconica di quando si è concluso un viaggio che ci ha tenuto compagnia con la sua umanità.
Segnalazioni
Perché ridiamo? Un nuovo libro prova a rispondere alla domanda.
“Cosa resta da fare, quando una qualche cosa rimane oscura anche mentre è lì, davanti a te? C’è davvero molto altro da fare, oltre a ridere?”
L’angolo autoreferenziale
Sono molto felice di annunciare le prime date del mio nuovo one man show.
La sindrome del Campostori andrà in scena lunedì 4 novembre al Lato B di Milano e giovedì 7 novembre al Clab di Ragusa.
Ne La sindrome del Campostori parto da me stesso per fare comicità sui temi più disparati: le relazioni, il complottismo, il rapporto con gli psicologi e il sesso. Quello che ne esce è il ritratto di un quasi quarantenne che prova a riflettere su di sé e sul presente che lo circonda, seguendo il filo dell’ironia e il tentativo di non cedere (in amore e sui temi sociali) a facili semplificazioni.
Dove vedermi live
Se non avete preso impegni per questa sera (sabato 19 ottobre), potete venirmi a vedere all’open mic di Radio Aut a Pavia.
Accanto a La sindrome del Campostori continua il tour del mio primo one man show, Nutro i miei dubbi:
Martedì 22 ottobre - Eataly, Torino
Giovedì 24 ottobre - Eataly, Milano
Domenica 27 ottobre - Cinquanta - Spirito Italiano, Pagani
Mercoledì 6 novembre - Perditempo, Barcellona Pozzo di Gotto
Martedì 19 novembre - Amen, Verona
Prosegue Knockout, la battaglia di roast organizzata da Schersito allo Zelig di Milano, della quale sono MC. La prossima data è sabato 26 ottobre (qui i biglietti) e quella successiva sarà sabato 9 novembre.
Coi Tutto Sotto Controllo torniamo al Griller Hop di Monza coi nostri giochi di improvvisazione e interazione col pubblico domenica 10 novembre.
Giovedì 14 novembre sarò all’Arci Area di Carugate a fare 15 minuti in compagnia di Marsel (che ringrazio per l’invito), Matteo Zaffarano e Marco Lillo Di Biase.
Il video alla fine
Richard Pryor e Robin Williams al Comedy Store di Los Angeles. Eh.
Sarà un caso che questa newsletter su Life’s Too Short si conclude con Robin Williams, ovvero quello di “nano nano”?