Fail better
Quando ho iniziato con la stand-up comedy ero, come penso molti esordienti, legatissimo al testo. Succede perché si ha poca esperienza e si pensa che il risultato della performance derivi esclusivamente dal contenuto e perché aggrapparsi al “copione” è un modo per garantirsi un margine di sicurezza nell’incertezza totale dell’esibizione dal vivo. Avendo tra l’altro una vocazione da battutista, studiavo meticolosamente parola per parola quello che avrei detto sul palco. Col tempo ho maturato una visione più articolata dell’arte della comicità live: ho imparato che la componente performativa (il modo in cui si sta in scena, la voce, come si appare al pubblico) riveste un ruolo tanto centrale quanto quello del testo, ma soprattutto ho capito che una delle cose più preziose (per me) è la possibilità di vivere un momento di autenticità con gli spettatori, di presentarmi spogliato più possibile della retorica e delle convenzioni con le quali ci copriamo in molte altre situazioni sociali. Questo comporta necessariamente un mutamento radicale del modo in cui ci si pone sul palco: perdere tutti gli aspetti teatrali (l’impostazione, la quarta parete, l’oralità che ricalca lo scritto) in favore di una conversazione sincera col pubblico. Un approccio, tra l’altro, che mi sembra essere anche quello che funziona meglio, perché crea un legame forte con gli spettatori, che percepiscono il comedian come una persona reale e la sua performance non come un prodotto consegnato da un agente esterno e da consumare così com’è ma come qualcosa di vero, che avviene in quell’istante e che il comico costruisce e condivide con ogni membro dell’auditorio.
Ancora adesso, quando preparo i miei pezzi, cerco di introiettare la forma più esatta di pronunciare una battuta, ma dopo tanto palco (e ispirato dal mio maestro Dado Tedeschi) ho imparato finalmente a essere sciolto, rilassato, aperto al qui e ora.
Inevitabilmente, in questo percorso mi sono trovato a confrontarmi con l’improvvisazione, a provare a introdurla nei miei show, a cercarla insistentemente e a doverla poi bilanciare con il repertorio. Ho pensato dunque di intervistare Francesco Lancia, la cui natura ibrida (oltre a essere un autore televisivo e radiofonico è anche un improvvisatore teatrale) e la cui capacità riflessiva sulla comicità mi sembravano perfette per addentrarmi in questo tema, ed in effetti le sue risposte qui sotto mi hanno dato diversi spunti e un’ottica generale più approfondita sulla questione.
Che cos’è esattamente l’improvvisazione teatrale?
Inizio dicendo che sono di formazione scientifico-matematica e quindi per me le definizioni sono una cosa molto importante. Purtroppo, come per ogni arte, anche nel caso dell’improvvisazione teatrale è difficile dare una definizione precisa perché qualsiasi tentativo lascerebbe fuori qualcosa che dovrebbe rientrare nella categoria e probabilmente terrebbe in considerazione cose che forse non lo meriterebbero. Per esempio, se ti dico “l’improvvisazione è l’arte di salire su un palco senza copione”, allora anche quella che ultimamente (per una distorsione a stelle e strisce) viene chiamata dagli stand-up comedian “Improv Night” sarebbe improvvisazione teatrale quando invece è più correttamente crowd working. Potrei aggiungere “l’arte teatrale di salire su un palco senza copione” ma non avrei risolto granché il problema perché cosa è teatro? Cosa non lo è? Davvero l’esistenza o meno della quarta parete conta qualcosa? Se ti dicessi invece che l’improvvisazione teatrale è l’arte di salire su un palco senza copione per raccontare storie, probabilmente, per esempio, includerei nella definizione anche l’arte dello “storytelling improvvisato” che invece alcuni tendono a considerare un genere a parte. Se inserissi nella definizione il concetto di “scena” o di “storia” probabilmente, per alcuni, terrei fuori altre cose più astratte che invece sono decisamente parte dell’improvvisazione teatrale per come la intendiamo noi che la pratichiamo. Forse, dunque, la cosa migliore da fare è prendere per buona la pur limitata e limitante definizione di Wikipedia e dire dunque che l’improvvisazione teatrale è una forma di teatro dove l’attore o gli attori non seguono un copione definito, ma inventano il testo improvvisando estemporaneamente. Insomma, una performance nella quale uno o più attori salgono sul palco e, senza avere un copione, interpretano e raccontano storie al pubblico.
In cosa si distingue l’improvvisazione teatrale come genere dall’improvvisazione estemporanea che un comedian può inserire nella sua performance?
Ahimè, per le difficoltà di definizione di cui sopra è appunto molto difficile rispondere in maniera davvero esaustiva a questa domanda. Provo però a soffermarmi sulle differenze principali, forse le più evidenti. L’improvvisazione teatrale è nella maggior parte dei casi un lavoro di gruppo – ma non necessariamente eh, esistono tantissimi spettacoli in solitaria – nel quale più attori improvvisano insieme, mentre la stand-up comedy è, tendenzialmente, una forma di comicità in solitaria (did someone say “monologhista”?). Questa differenza però potrebbe essere meno significativa se si pensa che alla fine, anche in uno spettacolo di stand-up comedy ci sono due “attori” nel senso più lato del termine: il comedian e il pubblico.
Un’altra differenza è probabilmente che mentre uno stand-up comedian tende sul palco a non raccontare una vera e propria storia (almeno per come intendiamo storia da un punto di vista drammaturgico) ma a fare un “discorso” toccando uno o più temi, nell’improvvisazione teatrale si cerca di creare qualcosa che possa avere un valore drammaturgico; anche questa differenza però in realtà registra gigantesche eccezioni da entrambe le parti con pregevoli spettacoli di stand-up comedy che hanno una gigantesca valenza drammaturgica (penso ad esempio a Life since then di Robert Schimmel) o a spettacoli di improvvisazione teatrale che in realtà di drammaturgico hanno ben poco ma che ricadono appieno nel genere (penso ad esempio a Solo di Beto Urrea). Di nuovo, è difficile dare una risposta a questa domanda a causa della difficoltà nel porre i limiti di definizione a qualsiasi forma d’arte.
Forse l’unica differenza palese tra i due generi è che mentre la stand-up comedy ha nel suo stesso nome la parola “comedy” e quindi vede nella risata una cartina tornasole del suo successo (ma anche su questo c’è chi potrebbe discuterne a lungo), l’improvvisazione teatrale può anche essere drammatica. Non è un caso che recentemente sia nata una scuola di pensiero che ha deciso di definire quello che fa “improvvisazione comica” anziché “improvvisazione teatrale”. È qualcosa che arriva dagli Stati Uniti dove non a caso, per motivi di utilizzo più che di teoria, questo genere di comicità viene chiamato semplicemente “Improv” che dunque deve poi essere declinato in “Dramatic Improv” quando si vuole specificare che l’intento NON è comico. Insomma, negli Stati Uniti ormai “Improv” è sinonimo di “Improv Comedy” che può essere “improvvisazione teatrale” o “crowd working”. E siccome noi dagli Stati Uniti importiamo praticamente tutto…
Da profano, collegavo l’improvvisazione quasi esclusivamente alla comicità. Non sapevo esistessero anche tragedie o drammi improvvisati.
Con l’improvvisazione si può fare qualsiasi cosa. Anche la stand-up comedy. E viceversa. Ma di nuovo, in questa difficoltà di definizione vive l’equivoco di cui parlavamo sopra. Nel nostro ambiente puoi trovare qualsiasi cosa “completamente improvvisata”, dal musical, alla tragedia shakespeariana, dal dramma in stile “Jane Austin”, al film di Harry Potter o al cinema muto. C’è però un netto sbilanciamento tra le creazioni comiche e quelle drammatiche a favore delle prime. Questo principalmente per due motivi: il primo è un motivo di marketing (LAGGENTE VUOLE RIDEEEEE!!); il secondo è che, senza scendere in dettagli troppo tecnici, l’improvvisazione teatrale vede come motore scatenante l’errore che, in genere, è fonte di grande divertimento per chi guarda le creazioni estemporanee degli improvvisatori. Riuscire a improvvisare qualcosa di drammatico è a mio giudizio più difficile (nel senso che richiede maggior tecnica ed esperienza) perché significa essere in grado di accettare così bene l’errore (bada bene, non evitarlo, ma solo accettarlo completamente) da trasformarlo in motore drammaturgico senza perdere la tensione, l’intensità e la connessione tra gli attori necessaria per la creazione di un prodotto drammatico. Tentare di evitare l’errore invece significa snaturare l’improvvisazione e cercare di voler usare l’improvvisazione come strumento per ottenere un lavoro perfetto, totalmente indistinguibile da un’opera col copione, con il risultato di avere, nella stragrande maggioranza dei casi, un lavoro che non ha avuto la certosina opera di rifinitura in scrittura e contemporaneamente ha perso il motivo per cui si improvvisa ossia il rischio e l’errore. Il risultato? In genere una gran rottura di palle. Tuttavia, esistono anche qui preziose eccezioni, come dimostra il Dramatic Improv Festival che si tiene a gennaio a Chicago.
Se sul palco si deve improvvisare, come ci si allena all’improvvisazione? Si fanno prove? E come sono?
Esistono dei veri e propri allenamenti utili o a migliorare qualche lacuna tecnica (dal punto di vista teatrale ad esempio sull’utilizzo della voce, del corpo eccetera) o allenamenti importanti per educare l’improvvisatore a diventare più bravo nel suo mestiere che è quello di prendere rischi. Uno dei principali errori che commette chi comincia ad improvvisare è credere – più o meno consapevolmente - che la formazione di un improvvisatore teatrale consista nel cercare di accumulare strumenti che ci permettano di saper reagire meglio alle varie situazioni che ci si pareranno davanti (come si costruisce una storia ad esempio, come si fa una battuta, eccetera eccetera). Tutte cose utili, per carità, ma, dal mio punto di vista, rischiano spesso di essere controproducenti. La formazione di un improvvisatore teatrale consiste invece un costante allenamento nell’accettazione dell’errore, in una ripetuta educazione nella ricerca del rischio, in un infinito esercizio di connessione a sé stesso e agli altri. Tutte cose che, alla fine, non si imparano mai davvero, ma che vanno ripetute costantemente nel corso della propria esperienza artistica. Ecco perché chi dice di saper improvvisare, per me, è probabilmente la persona più lontana dal saperlo fare davvero (d’altra parte, se ci pensi, “saper improvvisare” non è di per sé un paradosso al pari di qualcuno che ti dice “Sii spontaneo”?). Più pragmaticamente, le prove sono allenamenti di gruppo in cui si propongono e realizzano scene di improvvisazione, se ne analizza il risultato cercando di capire cosa ha funzionato e cosa no (secondo alcuni criteri più o meno tecnici) e si propongono esercizi per stimolare quelle skill che sono necessarie in un improvvisatore teatrale.
Mi interessa molto questa cosa dell’accettare l’errore. Potresti a farmi un esempio di cosa significa in concreto? Di cosa avviene durante l'improvvisazione che ti porta a dover affrontare l’errore, a gestirlo, a accettarlo? E perché secondo te è un valore?
Parto dalla fine, ossia perché l’errore per noi è un valore. Per lungo tempo si è pensato che fare improvvisazione teatrale fosse fare spettacoli di teatro che “non sembrava fossero improvvisati”, cioè, in cui sembrava ci fosse un copione, anche se non c’era, con il risultato spesso di fare spettacoli noiosissimi e pretenziosi. Questo è, a mio giudizio, un errore strategico clamoroso, perché a quel punto tanto vale scriverlo quel copione: ci sono ottime possibilità che, grazie all’operazione di correzione e riscrittura, negata dalla nostra arte, venga un lavoro migliore. La bellezza e l’unicità dell’improvvisazione teatrale sta nel vedere degli attori che reagiscono all’imprevisto, ad un’incomprensione interna, ad uno spunto del pubblico particolare, ad un problema tecnico… È questa innata e irrinunciabile componente di rischio che rende l’improvvisazione teatrale la meravigliosa arte che è. Il nostro è l’unico lavoro dove, quando fai un errore, i tuoi compagni di squadra ti fanno i complimenti. Per poter però non essere travolto da tutto ciò bisogna lavorare sull’imparare a trasformare l’errore, che nella vita reale (come diciamo noi giovani: IRL) è spesso visto come qualcosa da punire, in qualcosa che invece è un’opportunità e anzi, una cosa irrinunciabile. Bada bene, non “da cercare volontariamente” perché, se ci pensi bene, se vuoi sbagliare e sbagli, di fatto non hai sbagliato. È un concetto un po’ zen, mi rendo conto, ma si tratta di voler fare le cose al meglio possibile e allor stesso tempo essere pronti ed entusiasti nell’accettare poi quello che capita, mollando il controllo sulla scena e lasciandosi trasportare dal flusso. Ti garantisco che non solo non è facile, ma è anche una cosa che non si impara mai davvero completamente e richiede un percorso di training continuo e ripetuto. Se vuoi un esempio prova a fare questo esercizio. Pensa a due categorie tipo “nomi di donna” e “Città” e poi cerca di dire un elemento per ogni categoria in ordine alfabetico saltando da una categoria all’altra (ad esempio Anna, Amatrice, Barbara, Bari, Carla, Chieti…) il più rapidamente possibile. Attenzione però, l’esercizio non è tanto questo quanto provare ad esultare quando rallenti il ritmo, non ti viene in mente niente o sbagli. Ma esultare veramente (ossia celebrare l’errore) come se avessi fatto goal, mentre in realtà cerchi di essere il più veloce ed esatto possibile. SI tratta di una cosa completamente anti-intuitiva, difficile da fare e dunque costantemente da allenare. Se voi che state leggendo ci siete riusciti davvero, velocissimi, al primo colpo, celebrando con reale entusiasmo ogni errore, mandatemi il curriculum che dobbiamo parlare.
Tu sei anche un autore, e credo sia particolarmente attento al testo, alla scrittura, alla formulazione precisa delle battute. Come concili questi due aspetti della tua vena artistica? Cosa ti attrae di uno e cosa dell’altro?
Per quanto mi riguarda tra l’improvvisazione teatrale e la scrittura c’è una enorme empirica differenza principale: che nella scrittura posso tornare indietro, rileggere e correggere, anche più volte. Nell’improvvisazione teatrale la creazione coincide con il momento della messa in scena e dunque è impossibile correggere o sistemare quello che hai detto o fatto. Sono due aspetti meravigliosi e complementari della mia vita e l’uno è fondamentale per l’altro tanto da risultare meno efficace nei momenti nella mia vita in cui scrivo ma non improvviso così come se improvviso ma non scrivo. Della scrittura mi attraggono sia la parte creativa che la parte di rifinitura in quello che trovo un lavoro altamente intellettuale, mentre della parte improvvisativa mi attrae sia la parte creativa che quella parte di autoascolto e autoanalisi non filtrata che nella scrittura mi riesce ancora più difficile. Insomma, testa contro istinto (anche se ovviamente c’è contaminazione tra le due cose).
Sembra che improvvisatori e stand-up comedian siano acerrimi nemici. Nella tua esperienza, ciò corrisponde al vero?
Ma va! Mi verrebbe di risponderti con il meme del giardiniere Willie sugli scozzesi che sono i peggiori nemici degli scozzesi. Gli stand-up comedian sono gli acerrimi nemici di tutti, stand-up comedian compresi. E così gli improvvisatori sono i peggiori nemici di tutti, improvvisatori compresi. Per altro questo avviene principalmente in Italia, perché nei paesi anglosassoni molti stand-up comedian sono anche improvvisatori e viceversa, con le due arti che si rispettano e si contaminano molto. In Italia questo succede meno, ma credo ci sia un motivo ben preciso. Nel nostro paese sia la stand-up comedy che l’improvvisazione teatrale sono, di fatto, ancora due nicchie e nelle nicchie i posti sembrano sempre limitati, almeno a chi sta nella nicchia. Per cui se in quel posto ci stai tu, non ci sto io e quindi rosico. Ci vorrà un po’ di tempo, ma quando si scoprirà che un pittore non solo non dovrebbe essere invidioso di uno scultore, ma che anzi, magari, può imparare da lui qualcosa sulla prospettiva e sull’anatomia (e viceversa) allora le due arti avranno fatto uno step di maturazione in avanti. Per ora sono arti ancora giovani (addirittura in Italia la stand-up comedy rischia di essere più giovane dell’improvvisazione teatrale, pensa te) quindi dobbiamo essere indulgenti. Non è un caso che i comedian più maturi artisticamente non solo non sono refrattari all’improvvisazione teatrale ma ne sono anzi curiosi e affascinati. Poi può sempre farti schifo eh, per carità, ma c’è anche chi a sentire “stand-up” ha l’orticaria.
Credo che una delle critiche che i monologhisti fanno agli improvvisatori sia che il valore di una performance artistica risieda nel lavoro di creazione che ha permesso di realizzarla, nella fatica di scrivere un testo prima di presentarlo al pubblico. All’artigianato del joke si oppone una comicità basata sul caso, all’arguzia del comedian si oppone la tempestività dell’improvvisatore. Cosa ne pensi?
Se dicessi che alla fine fare stand-up comedy è semplicemente dire “sborra cazzo figa” e giù a ridere, probabilmente (e giustamente) riceverei decine di obiezioni da indignati (per usare un eufemismo) stand-up comedian che mi accuserebbero di generalizzare, di sottovalutare lo sforzo che richiede la creazione di materiale, la rifinitura, il ragionamento eccetera eccetera. Questo accadrebbe perché effettivamente, con buona probabilità, non conosco quel tipo di sforzo e quindi dico “che ce vo’, lo so fare anche io”. La stessa cosa accade al contrario. Chi dice quello che tu sostieni dell’improvvisazione teatrale ha probabilmente un’idea molto superficiale di cosa sia davvero (magari basandosi su 5-6 spettacoli visti) e parla per sentito dire, convinto però di saperla lunga, cosa per altro tipica degli stand-up comedian scarsi che invece se la sentono bollente (ma questa è una mia personalissima opinione). A loro difesa però, posso dire che così come è facilissimo fare stand-up comedy ma è difficilissimo farla bene, è facilissimo imbattersi in improvvisatori principianti che magari sono ancora all’inizio della loro ricerca e che porteranno chi li guarda a trarre un giudizio parzialissimo sulla loro arte, con responsabilità di entrambi i lati. Insomma, ignoranza e superficialità, non fanno distinzione di genere (di comicità).
Secondo te cosa può imparare uno stand-up comedian dall’improvvisazione?
Sarebbe banale dire tanto, per cui ti risponderò con un esempio concreto, ma a mio giudizio importante, senza avere la pretesa di essere esaustivo. A mio giudizio un buon corso di improvvisazione teatrale è fondamentale per uno stand-up comedian per conoscere meglio quella che è una delle caratteristiche più importanti per un comico che sale sul palco: la vulnerabilità. Vedo spessissimo stand-up comedian sicurissimi di sé che salgono sul palco con la sensazione di avere tutto sotto controllo e che ora spaccheranno il culo a ogni singolo elemento del pubblico facendolo rovesciare a terra dalle risate. Beh, che dire, in bocca al lupo! È esattamente il contrario e l’improvvisazione teatrale può insegnarti il perché, ma qui mi fermo perché sto pensando ad un corso di improvvisazione teatrale per stand-up comedian e non voglio fare spoiler che influirebbero sul mio fatturato.
E cosa può imparare un improvvisatore da uno stand-up comedian?
Anche qui è banale dire tanto, per cui ti risponderò con un esempio concreto, di nuovo senza pretesa di completezza. Un improvvisatore teatrale può imparare da un (bravo) comedian la gestione del pubblico. Uno stand-up comedian esperto lo sente, lo gestisce, ne capisce gli umori e adatta la sua performance in base a chi ha davanti. Molti improvvisatori teatrali, spesso non lo fanno e tendono a rimontare la quarta parete subito dopo aver chiesto i canonici spunti che servono in genere a dare il la all’improvvisazione, non sfruttando quello che invece, come uno stand-up comedian sa bene, può essere un vero motore e una gigantesca fonte di ispirazione. Ovviamente sono tante le cose condivisibili da un genere all’altro e viceversa, ma non ho alcuna intenzione di fare un corso di stand-up comedy per improvvisatori teatrali quindi sticazzi.
Per finire, che consigli daresti a chi vuole approcciarsi all’improvvisazione da pubblico? Cose da vedere, locali da frequentare…
Prima fammi fare il momento promotion generalizzato. Per chi vuole iniziare a fare improvvisazione teatrale il consiglio è cercare una delle tante scuole che esistono in tante città d’Italia (purtroppo più al nord che al sud, anche se il fenomeno sta crescendo anche sotto al Tevere) e iniziare un corso. Chiaro che, come in tutte le cose, può dirti bene e farti esaltare e può dirti male e disgustarti, ma la strada questa è. Se invece sei all’estero è probabilmente tutto ancora più facile, ci sono molte scuole praticamente ovunque. Per quanto riguarda gli spettacoli, invece, come nella stand-up comedy e in tutte le arti, puoi vedere bellissime cose e puoi imbatterti in cose orrende, ma anche qui, se non hai pregiudizi, difficile andare ad uno spettacolo di improvvisazione e uscire senza aver fatto neanche una risata, alla peggio alle spese degli improvvisatori. Ci sono spettacoli più “teatrali” e spettacoli più “leggeri”, spettacoli più pretenziosi e altri più cazzoni, format competitivi a squadre e show che in realtà praticamente non sono altro che due attori sul palco senza niente. Insomma, hai solo l’imbarazzo della scelta. Purtroppo al momento, a quanto ne so, non esistono, a differenza di quanto avviene all’estero, teatri famosi in Italia principalmente per l’improvvisazione teatrale, mentre esistono qua e là compagnie che o si stanno creando i loro spazi proprietari o sono talmente da tanto in un teatro o locale da averla trasformata in “casa” a tutti gli effetti. Se, pistola alla tempia, devo fare due nomi segnalo i londinesi The Showstoppers, compagnia di grandissimo successo che si occupa di musical improvvisati, e la compagnia di cui faccio parte che si chiama i Bugiardini, by the way e fa degli spettacoli tendenzialmente gradevoli che non posso esimermi dal consigliare. Ma senza sbilanciarmi perché, sai, nell’improvvisazione teatrale, il fallimento è dietro l’angolo.
Segnalazioni
Erica Ferencik è una scrittrice di thriller con un passato da stand-up comedian. In questo articolo per Crime Reads riflette sul rapporto tra romanzo e comicità, tra humor e paura. “Laughter and jump scares, like sex and death, are strange sisters hiding in plain sight in the human psyche”.
Jordan B. Peterson ha intervistato per il suo podcast Jimmy Carr: una lunga e profonda chiacchierata che consiglio a tutti gli appassionati di comicità.
Per la sezione notizie allegre, il Guardian ci informa che i comedian muoiono giovani.
L’angolo autoreferenziale
Qualche venerdì fa sono stato inserito all’ultimo momento nella scaletta dell’open mic del Circolo San Luis, in sostituzione di un altro comico assente. Cogliendo la palla al balzo, ho deciso di improvvisare totalmente i miei sette minuti, chiedendo al pubblico temi di cui parlare (per la cronaca, ha vinto la necrofilia). È stato divertente, non è andata come mi aspettavo, ma d’altronde è proprio questo il senso dell’improvvisare, no?
Sicuramente un’operazione del genere funziona anche perché dichiarando di non fare un pezzo preparato predisponi il pubblico ad un happening comico e quindi il clima è di accettazione, ma aldilà del giudizio di quella specifica performance, mi ha confermato che riuscire ad essere così tranquillo sul palco è un plus che voglio continuare a coltivare.
Dove vedermi live
Giovedì 24 marzo sono ospite della Comedy Night organizzata da Natalia Vasilishina al Bachelite CLab di Milano.
Il giorno dopo, 25 marzo, presento il one man show di Mario Raz (in compagnia di Andrea Pellizzoni) alla Birreria Majnoni di Erba, dove l’8 aprile ci saranno Edoardo Confuorto e Carlo Vitulo.
Martedì 29 marzo prosegue la rassegna al Wipe Out di Senago con Elisa Benedetta Marinoni e Alessandro Cappai; la data successiva sarà il 12 aprile con lo spettacolo completo di Andrea Saleri e in apertura Giovanni Romano.
Venerdì 15 aprile (venerdì santo!) farò venti minuti al Circolo San Luis in una serata condivisa con Alessandro Cerato e Luca Anselmi e presentata da Matteo Zaffarano.
Il video alla fine
Scarpe trite è un canale Youtube che nel tempo ha pubblicato diversi pezzi di stand-up anglofona sottotitolati in italiano. Da qualche giorno ha ripreso a postare e tra il materiale uscito c’è anche questo Emo Philips d’annata, quando aveva dismesso (temporaneamente) i panni con cui siamo abituati a vederlo in scena.
Thanks for being my friends!