Che lavoro fai?
Una delle caratteristiche peculiari della stand-up comedy, lo diciamo sempre, è l’abbattimento quasi totale della quarta parete, il vivere il momento, cioè reagire a quello che succede in sala durante la performance. In questa dinamica, un ruolo centrale spetta al crowdwork, ovvero l’interazione col pubblico.
Si tratta anche di uno degli aspetti più di successo in questa forma espressiva: Brian Logan sul Guardian lo ha definito “the hottest thing in standup comedy”.
All’inizio della propria esibizione (che si tratti di sette minuti in un open mic o di un one man show) è importante stabilire una connessione col pubblico, e partire in quarta sciorinando il testo scritto a casa lo rende più difficile, perché l’impostazione con la quale si recita un monologo preparato pone una distanza che quasi sempre non favorisce la risata. Questo è anche il motivo per il quale, anche nell’esecuzione del proprio repertorio, è fondamentale trovare una voce capace di avvicinarsi più possibile alla spontaneità. Il che non esclude per forza atteggiamenti “teatrali” o formali, ma l’attitudine deve riuscire a creare empatia con l’audience; su quella base si può poi costruire.
In alcune situazioni, quando il pubblico è molto distratto (per “colpa” sua o a causa della conformazione del locale, della disposizione delle sedie, ecc.), non abituato alla stand-up comedy (e quindi a un certo tipo di linguaggio), o anche semplicemente maleducato, il crowdwork è l'unica cosa che si può fare per portare a casa la serata; a volte, addirittura, scegliere di abbandonare il repertorio (che non avrebbe funzionato) e dedicarsi totalmente al “cazzeggio” con spettatori e spettatrici regala serate clamorose. Vi sono ambiti, al contrario, nei quali incaponirsi sul crowdwork porta a impantanarsi in una palude fatta di poca collaborazione del pubblico, tentativi di strappare risate andati a vuoto, deterioramento della sintonia tra palco e platea dalla quale è impossibile riemergere. Saper fare il mestiere del comico significa anche saper capire per tempo cosa convenga fare, non essere troppo affezionati ai propri testi e maturare la flessibilità necessaria per provare a invertire la rotta cambiando strategia in corso. Solo così si persegue lo scopo di far ridere e non quello di presentare al pubblico ciò che si desidera a prescindere da qualsiasi considerazione e valutazione della sala.
Nel crowdwork spesso ci si concentra sul lavoro e sulle relazioni (Cosa fai nella vita? Siete una coppia?) perché sono due elementi estremamente relatable per tutto il pubblico e perché tendenzialmente offrono spunti interessanti: tutti i mestieri, nella performance comica, possono diventare noiosi, assurdi, fonte di odio, di povertà o di ricchezza da attaccare con una punchline; a due fidanzat* si possono chiedere dettagli scabrosi, sperando che ci sia disaccordo nelle loro risposte, e se invece sono solo amic*, beh, interroghiamoci scherzosamente su chi dei due in realtà voglia scoparsi l’altr*.
Oggi il crowdwork è così di moda che il/la comedian che chiede “Che lavoro fai?” è diventato un meme, e il fatto che esista tutta una critica a questo tipo di domande è un segnale proprio della diffusione del fenomeno, che come tutti i fenomeni ampiamente diffusi conosce anche sacche di pigrizia e di ripetizione di schemi sempre uguali.
Si potrebbe aprire una parentesi sul “finto” crowdwork: se il/la comedian si è preparat* per filo e per segno tutto un ventaglio di contro-risposte agli input del pubblico, è vero crowdwork? Probabilmente no, non c’è un ascolto profondo della sala, è più usare gli spettatori e le spettatrici come strumento per far entrare le proprie battute. Cosa del tutto legittima, ma differente. Ci sono ovviamente casi intermedi, nei quali l’interazione “sincera” con l’audience offre inaspettatamente la possibilità di usare un joke che si ha in repertorio o una punchline standard rispetto ad una determinata risposta. Distinguiamo allora due piani, quello dell’efficacia (si è riusciti a far ridere?), all’interno del quale vale tutto, e quello delle intenzioni: se l’intento è provare a improvvisare e a buttarsi senza rete di sicurezza, bisogna sforzarsi di evitare le soluzioni facili, pre-confezionate, preparate a casa.
Quando il/la comedian fa crowdwork le aspettative del pubblico si abbassano: proprio perché è una cosa improvvisata, non si pretende che sia perfetta ed esilarante; gli spettatori e le spettatrici apprezzeranno la velocità di esecuzione e il fatto che la battuta non fosse preparata e questo farà risultare tutto più divertente. La prova è che molto materiale nato durante il crowdwork, se riproposto come repertorio “portato da casa”, viene percepito molto meno divertente.
Il fascino del crowdwork è il fascino della stand-up: quello che succede durante il botta e risposta tra comedian e pubblico è il livello più vicino a una conversazione reale che può avvenire durante una performance artistica. E’ unico e rende speciale quello specifico show. Evidentemente, gli spettatori e le spettatrici hanno fame di qualcosa che rompa la comunicazione unidirezionale (dal palco alla platea), che esuli dal repertorio pre-costruito. Perché? Non sono sicuro, ma probabilmente c’entra il desiderio di assistere a qualcosa di autentico, intendendo con questo aggettivo qualcosa di spontaneo, irripetibile, vivo. L’essere umano sembra avere bisogno di relazionarsi coi propri simili, e il crowdwork è un moderno rito sociale collettivo di una comunità nella quale non c’è una netta distinzione tra comedian, spettatori e spettatrici.
In realtà, però, anche nel crowdwork (come in qualsiasi spettacolo dal vivo) il potere è distribuito in maniera diseguale: la persona col microfono non solo ha alle spalle un’esperienza nel gestire queste conversazioni che lo rende più forte, non solo “per statuto” è il centro dell’attenzione della sala, ma ha anche modo di pilotare la discussione, tenere per sé l’ultima parola, inquadrare le risposte che riceve nel frame che preferisce.
Basti pensare che, problematizzando quanto detto prima sul valore aggregante del crowdwork, spesso esso si conclude con le risate collettive a danno del singolo preso di mira dal comico: c’è dunque anche un aspetto violento, un’esposizione al pubblico ludibrio della privacy di un* malcapitat*, un gusto nell’assistere dal vivo a un’uccisione simbolica (della vittima della battuta).
Detto questo, è senza dubbio un modo di parlare col pubblico che potenzialmente conduce a rapporti di forza più equilibrati tra palco e platea.
I motivi per il quale sui social media molt* comedian pubblicano prevalentemente video di questo tipo sono, credo, almeno due: il primo è che, a torto o a ragione, si è restii e restie a condividere parti del proprio repertorio, temendo di bruciarlo e volendolo quindi preservare solo per i live (fino al momento dell’uscita del proprio special, magari autoprodotto su Youtube, che sancisce l’abbandono dei pezzi presentati finora e la concentrazione sul nuovo materiale). Il secondo è che il crowdwork fatto bene è percepito come un attestato di grande qualità: con una risposta arguta il/la comedian dimostra una velocità di pensiero straordinaria; se la costruzione di una battuta perfetta è virtuosismo, l’invenzione di una punchline in pochi secondi è virtuosismo all’ennesima potenza.
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Attenzione: non penso che la natura iper-performativa e esibizionista di questo tipo di crowdwork sia negativa. Chi sale sul palco lo fa sempre (anche) per vedere appagato il proprio ego, e per quanto mi riguarda va benissimo così. Se il lavoro col pubblico è uno degli strumenti con cui ottiene i risultati che vuole (e tra questi ci può essere benissimo una dimostrazione di talento), perfetto.
Precisato ciò, è evidente che questa concezione del crowdwork si allontana dalle basi dell’improvvisazione teatrale, che richiede di non concentrarsi tanto sul risultato quanto sul godersi il percorso, immergendosi totalmente nell’hic et nunc e vivendo l’attimo. Il filone che segue questa filosofia, allora, pone a* comedian un compito molto arduo: mettere da parte il proprio ego, la propria ansia da prestazione che l* porterebbe a chiudere immediatamente l’interazione con una punchline definitiva, per provare davvero a seguire il flusso che emerge interagendo col pubblico, a lasciarsi coinvolgere dagli input che riceve senza ridurli a meri spunti per battute sagaci ma accettandoli nella loro potenziale natura creatrice di fantasie comiche e di connessioni tra esseri umani.
Credo che un* comedian debba come prima cosa concentrarsi sul proprio materiale: spendere ore a scrivere, editare, provare, cancellare, riscrivere i propri pezzi fino a che riesca ad ottenere un repertorio forte, congegnato in maniera impeccabile e ricco di battute esilaranti, affiancate da una delivery efficace maturata in anni di lavoro sul palco. Credo anche che eliminare l’aspetto egoriferito insito nella stand-up non solo non sia possibile (lo ribadisco: chi sale sul palco lo fa per ricevere consenso) ma non sia neanche auspicabile (perché è la ricerca del risultato a spingerti a scrivere e performare meglio). Penso quindi che, quando si ragiona sul crowdwork, non si tratti di rinunciare al sacrosanto e doveroso intento di far ridere, e di farlo primariamente coi propri testi, ma di introdurre nel proprio lavoro, accanto a questi obiettivi, una modalità di stare sul palco che ti apra al “territorio della possibilità” (per sua natura spaventosa in quanto incontrollabile) che arricchisce enormemente l’esperienza della performance dal vivo.
Segnalazioni
Una storia interessante di schiaffoni, paelle e collassi. Francesco Lancia ragiona sull’aggressione subita da un comico spagnolo.
A ottobre vengono in Italia Natalie Cuomo e Dan Lamorte.
Su Limina Annina Vallarino ragiona di politicamente scorretto nella letteratura, con un’incursione nella stand-up di Ricky Gervais.
L’angolo autoreferenziale
Ho avuto il piacere di prendere parte a Beat Comedy, un progetto di BeComedy e Danti che mischia rap e stand-up comedy. Clicca sull’immagine per vedere la mia puntata:
Dove vedermi live
Tra fine luglio e agosto non farò date, ci riaggiorniamo nella prossima puntata della newsletter.
Il video alla fine
Victor Patrascan è un comico rumeno celebre per il suo crowdwork internazionale: in ogni nazione dove si esibisce fa domande al pubblico, spesso partendo dal paese di provenienza del suo interlocutore o della sua interlocutrice. Questo video è una specie di diario della sua tappa milanese (si è esibito allo Slow Mill). A giudicare dal filmato, è rimasto molto colpito dal Cimitero Monumentale.
Ad agosto sarò, come di consueto, al Fringe di Edimburgo, ma Tendenza Groucho arriverà puntuale, anche per festeggiare il suo quarto compleanno. : )