Il comico dal cuore di ghiaccio
Si dice spesso che il comico dev’essere un perdente. E nella stragrande maggioranza dei casi è così, le eccezioni sono veramente poche. Una di queste è Anthony Jeselnik. Assieme a Jimmy Carr è uno dei one liner più famosi al mondo e come il collega inglese è noto per il suo umorismo cattivo e senza limiti. Non a caso, una delle cose per le quali è più noto sono i feroci roast ai quali ha partecipato. Lo scorso 26 novembre Netflix ha pubblicato il suo ultimo special, Bones and All e, come altre volte in passato, ho deciso di dedicare una puntata della newsletter a una retrospettiva per provare a tracciare la carriera di questo comedian.
Uno dei primi show di Jeselnik che si trovano online è Shakespeare, del 2010, in formato di registrazione audio, con un sonoro che fa sentire bene le reazioni del pubblico, molto calde, dando l’impressione di un show fatto in un piccolo locale,non dico intimo ma perlomeno non una grande arena come quelle cui ora è abituato il comedian. In un paio di pezzi possiamo sentirlo fare del crowdwork e si percepisce una genuinità maggiore rispetto ad altri momenti simili negli special successivi.
L’attitude è quella di un comico sicuro di sé, addirittura arrogante, ma di quel tipo di arroganza che piace al pubblico. Commenta le sue stesse battute affermando che sono eccezionali, suggerisce a chi non ha capito un joke di tornare a scuola a studiare, ricorda di essere ricco sfondato, intelligente, bello. Se state ascoltando questo album, dice a un certo punto, mettete in pausa, chiamate una persona che amate e fatele sentire questa battuta. E poi scusatevi perché il vostro timing non è buono come il mio. Come è possibile che un tale atteggiamento piaccia al pubblico? Ripartiamo dall’inizio: è vero, la figura del* comedian è quella di un* perdente, perché il meccanismo della risata serve ad alleviare le sfortune che capitano agli esseri umani, e chi meglio di un loser può prendersi questo compito? Da questa prospettiva, visto che i/le comic* si identificano in una categoria di outsider, rompere le regole non solo è concesso loro, ma è anche in qualche modo dato per assodato che i/le comedian infrangeranno i dettami prescritti alle altre persone. Ecco allora che, se la norma sociale vorrebbe umiltà (nessun* si incensa da sol* in generale, e nello specifico nella comicità è prevalente la self-deprecation), Jeselnik funziona perché spezza quella prescrizione, non nascondendo il suo senso di superiorità. “Penso di essere uno dei migliori comici di sempre” dirà più avanti nella sua carriera.
In più, la natura delle battute one line favorisce l’autocompiacimento perché quel tipo di joke porta all’estremo l’importanza della tecnica e della precisione e si presenta come il più cristallino sfoggio di arguzia che un* comedian possa fare: semplicemente, Jeselnik sottolinea che ogni punchline è una dimostrazione di sagacia, e in qualche modo riesce a coinvolgere gli spettatori nella celebrazione di sé stesso. Se hai riso con me che sono così tanto intelligente, sembra forse suggerire, fai parte anche tu di quelli svegli.
Il punto forte delle battute one line è la loro esplosività: quando il finale è potente il pubblico va in delirio. Il punto debole è che si rischia di ripetere un modello così tanto che la sorpresa viene meno perché gli spettatori si aspettano la misdirection e nei casi peggiori capiscono pure dove il comico andrà a parare.
In Shakespeare questo pericolo viene scampato: Jeselnik è bravo a costruire premesse che non lasciano intuire il colpo di scena. Le punchline poi, pur afferendo tutte all’ambito del black humor, sono abbastanza varie da non generare schemi prevedibili. In fondo è questo il segreto delle one line. Facile a dirsi, più complicato a farlo.
Tra una battuta secca e un’altra che necessita di una premessa un po’ più lunga, Jeselnik ha anche modo di esplicitare alcuni dei suoi convincimenti sul tipo di umorismo che fa: “The point of that story is that people who get offended by jokes are fucking stupid”, oppure “Anthony, you can't make fun of retarded people, you just can't make fun of retarded people” and I Always say: “No, you can't make fun of retarded people. I am awesome at it”.
Il bit finale, che dà il nome all’album, è un ottimo riassunto dello stile di Jeselnik: punchline provocatorie sapientemente scritte, sbruffoneria e una cornice meta nella quale il comedian parla del suo lavoro di comico (attraverso nuove punchline), dimostrando tra l’altro di avere le idee chiare: mai fare passi indietro e, di fronte a chi si offende, alzare ancora di più il tiro.
Caligula (2013) inizia col pubblico che gli tributa una standing ovation e la prima cosa che dice lui, sornione come sempre, è: “I know, right?”; dopodiché dà dei pezzi di merda agli spettatori, esilarati.
La prima battuta dello show è una rape joke, ma Jeselnik è abbastanza bravo da stare in equilibrio sulla linea sottile che separa il comico edgy dal comico fascistoide. E’ questa sua capacità a renderlo così diverso dai tanti suoi emuli sparsi nel mondo: se a un’occhiata superficiale il suo humor dark è simile a quello di tutti gli altri (per quanto riguarda i temi, ad esempio), analizzando più attentamente le sue battute ci si rende conto che il target delle punchline non è mai una minoranza, e che la comicità non scaturisce mai dalla rivendicazione di atteggiamenti da bullo nei confronti degli altri. Fatte salve alcune eccezioni e qualche caduta (ok, nessuno è perfetto), nel corso della sua carriera il suo black humor consisterà sempre nel dipingere sé stesso come una persona sgradevole o nel rivelare aspetti disdicevoli (per usare un eufemismo) e perversi di chi gli sta accanto (a partire dai suoi parenti), riuscendo miracolosamente a mantenere, in maniera non esplicita ma allo stesso tempo chiaramente percepibile, un punto di vista consapevole e morale rispetto alle nefandezze che che racconta.

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Subito dopo la rape joke il comedian ipotizza che qualcuno si possa essere offeso, e questo ci dà modo di ragionare sul tema del rapporto coi fan: col livello di fama che Jeselnik ha già raggiunto qui è improbabile che le persone andate a vederlo si offendano per le sue battute. Anzi, è quasi certo che chi va a vedere Jeselnik voglia sentire quel tipo di joke. D’altronde, basta osservare le reazioni del pubblico: ride di gusto e più cattiva è la punchline maggiore è il divertimento. Nello special successivo, Thoughts and Prayers, durante una delle prime battute gli spettatori scoppiano a ridere durante la premessa, “Ho visto un bambino”, perché già pregustano dove Jeselink andrà a parare tirando in ballo un infante: quale dimostrazione più evidente che il suo pubblico si aspetti proprio il politicamente scorretto?
Per questo sembra un po’ stonato quando il comedian insiste a rivolgersi a fantomatiche persone che si sono offese, e in Caligula Jeselnik indulge un po’ troppo in questa abitudine, ribadendo più volte quanto i suoi joke siano urticanti. Il fatto che, come dice lui stesso nel finale, la gente sia andata apposta a vederlo, toglie parte dell’effetto provocatorio dei testi di Jeselnik, almeno nelle performance dal vivo. Il rischio di offendere rimane per gli special registrati, che possono arrivare anche a chi non apprezza quell’umorismo; un pericolo che coi social network si è moltiplicato esponenzialmente.
La fama, dunque, pone una sfida difficile ai e alle comedian alla Jeselnik: come fare a provocare un pubblico che desidera essere provocato?
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Va detto comunque che, per quanto la celebrità renda tutto più posticcio, Jeselnik mantiene vivo il contatto col pubblico in maniera più accentuata rispetto ad altr* del suo calibro: guarda gli spettatori negli occhi, si sofferma su qualcuno in particolare, li interpella.
Inoltre, le sue misdirection sono sempre piuttosto imprevedibili. Caligula è un susseguirsi di one line perfette.
L’ultima parte viene annunciata dallo stesso Jeselnik come quella con le battute più offensive, in crescendo. E così sarà, con qualche sbavatura rispetto alla regola di non bullizzare.
Thoughts and Prayers (2015) porta a compimento lo stile col quale Jeselnik struttura i suoi special, in un’alternanza costante di one line dark e auto-analisi del proprio repertorio; a volte il comedian spiega esplicitamente la tecnica con cui ha scritto le battute o la sua filosofia circa la comicità. Spesso ripete le premesse due o tre volte, per ribadire la minuziosa costruzione parola per parola che determina il successo della relativa punchline. Il risultato è un’ora forse meno esplosiva, più rilassata, contenente alcuni joke che, a distanza di quasi dieci anni, possiamo considerare “classici” nella loro composizione (e perciò a volte più prevedibili del solito), tanto che potrebbero benissimo stare in un manuale sulla misdirection.
“My mom should've been on the 9/11 planes. I think”.
All’inizio dello show c’è un momento molto interessante: come spesso accade, Jeselnik sta parlando delle sue stesse battute e prepara l’audience alla successiva, nella quale cita la morte del figlio di Eric Clapton:
Il mio primo istinto, come quello di molti tra il pubblico, è di rifiuto: usare un vero bambino morto in una battuta è superare il limite. In realtà, però, se si riesce a superare lo shock avuto dall’introduzione in uno spettacolo comico di un fatto così tragico, si può ragionare sul senso di quel joke: che non è farsi beffe della morte di un bambino, ma dell’uso “ispirazionale” che Eric Clapton ha fatto di quell’avvenimento; Jeselnik critica la decisione del cantante di scrivere una canzone sul tema, probabilmente perché lo ritiene un uso pornografico del dolore. E’ un’opinione del comedian, sulla quale si può essere o meno d’accordo, ma vista sotto questa luce la battuta cessa di essere così problematica. Ecco allora che questo esempio permette di chiarire un punto fondamentale: citare un argomento o una persona nelle proprie battute non significa farne automaticamente il bersaglio di esse. Molta indignazione (compresa la mia iniziale a questo bit di Jeselnik) scaturisce non da un’analisi della battuta ma da una o più parole trigger che ci fanno preoccupare. E’ come se di fronte a determinati temi (ad esempio la violenza sulle donne, le persone trans, l’aborto) il pubblico cessi di ragionare sul merito della battuta, essendo convinto a priori che basti nominare tali argomenti in una battuta per significare il dileggio da parte del/della comedian.
Per completezza, bisogna anche dire che il passaggio in cui Jeselnik parla della goffaggine del figlio di Clapton (che è precipitato dal balcone) si presta invece secondo me più giustamente a delle critiche, perché mi pare proprio una presa in giro gratuita di quella che è a tutti gli effetti una vittima: scrivere comicità politicamente scorretta è difficilissimo e anche i migliori sbagliano. E in effetti Thoughts and Prayers è altalenante, sia in termini di prevedibilità dei joke che di centratezza del black humor, con sbandate maggiori rispetto agli show precedenti.
Come al solito, la parte finale è quella più “riflessiva”: “I don’t tell dark jokes because I’m a comedian. I’m a comedian because I tell dark jokes” dice Jeselnik, ammettendo di essere sempre stato così. La sua specialità è fare battute su una tragedia il giorno stesso che succede. Questo specifico tipo di joke prescinde maggiormente dal divieto di punching down (che generalmente il comedian rispetta) e segue esclusivamente uno dei compiti che si è prefissato, ovvero quello di rompere le regole, che in questo caso significa scherzare a cadavere ancora caldo. Più che mai, il comico è quello che fa ciò che è proibito. Nel racconto finale, incentrato su una sua battuta sull’attentato alla maratona di Boston, Jeselnik dettaglia ancora più esplicitamente la sua posizione: l’accusa di prendersi gioco delle vittime è ridicola, perché quando capita una tragedia le vittime non stanno su Twitter a leggere le battute che scrive. Con quei joke, prosegue, lui si fa beffe di chi, postando contenuti retorici (i “pensieri e le preghiere” che danno il titolo allo special), vuole anche quel giorno spostare l’attenzione su di sé. Secondo me in questa tesi, che per alcuni versi è abbastanza solida, ci sono delle criticità (davvero una battuta sui morti in un attentato è di per sé e chiaramente un attacco agli sciacalli social?); ma quello che mi preme davvero far notare è che nell’argomentare il suo pensiero Jeselnik si pone a chilometri di distanza dai paladini del free speech alla Gervais o alla Chapelle, che rivendicano la libertà di parola solo per proseguire indisturbati a fare battute omofobe, razziste, ecc. A differenza loro, Jeselnik mantiene sempre obiettività e intelligenza, tanto che in un passaggio arriva a problematizzare il suo stesso apologo sulla fedeltà a sé stessi: aldilà dei joke come sempre cesellati con attenzione, il valore di quel bit sta nell’introdurre altri punti di vista nella propria narrazione, inglobando più visioni e morali, senza per forza doverle conciliare. E la chiusa dedicata allo “shark party” (la gag del late show The Jeselnik Offensive in cui il comedian festeggiava la morte di un neozelandese ucciso da uno squalo) funziona allo stesso modo: Jeselnik non si accontenta di portare acqua al suo mulino fatto di black humor ma mostra anche i lati meno nobili di quel mulino, anticipando in poche parole quello che sarà il problema di quel tipo di comicità negli anni a venire: il collasso del contesto causato dai social network. “The New Zealand media takes the video… and they show it to the guy’s family”: con l’avvento di Facebook e di tutti i suoi simili (senza dimenticare la sudditanza complice dei media tradizionali), non è più possibile fare comicità politicamente scorretta come la si faceva prima, e chi non l’ha capito si trasforma pian piano in un reazionario arroccato su posizioni indifendibili.
Lo special successivo arriva dopo quattro anni. Fire in the Maternity Ward (2019) inizia in maniera debole: le premesse delle one line sono troppo costruite, hanno omissioni strane o giri di parole forzati che fanno intuire subito la chiusa che sta per arrivare. Quando ad esempio dice: “Non ho mai visto mio padre picchiare mia madre”, l’uso di “vedere” è un indizio troppo evidente riguardo a come sarà la punchline. Sembra anche che si sia spenta la follia luciferina del comedian, il cui repertorio ora pare un compitino ben eseguito, ma nulla più. Il tema di fondo è quello solito, rivelare di essere una brutta persona (che, ad esempio, gode nel far cadere i bambini), ma stavolta Jeselnik trova modi meno sorprendenti di dircelo; la forza dello show, a quel punto, rimane solo la cattiveria ostentata e non più la genialità spiazzante. Come già successo in precedenza, il pubblico ride del suo personaggio, ancora prima che lui chiuda le battute, ma in questo special il cortocircuito è molto più controproducente. Un esempio: ad un certo punto il comedian inizia una nuova battuta dicendo che, tra le poche cose che lo rendono felice, c’è il vedere le vecchie coppie sposate che muoiono a brevissima distanza tra loro; qui il pubblico già ride e poco importa che la battuta non sia quella, perché il personaggio che si è costruito Jeselnik porta gli spettatori a interpretare in maniera divertente la premessa, che però per funzionare come set-up di una battuta dovrebbe essere interpretata come un’affermazione dolce (è bello che due anziani muoiano assieme come suggello del loro amore). In poche parole, in questo show il personaggio “cattivo” di Jeselnik è diventato troppo ingombrante, precede i suoi testi e inquadra ogni joke in una cornice in cui nessuna virata nel macabro è più sorprendente.
Ovviamente ci sono anche momenti più forti (il bit sul razzismo inizia con un joke molto bello e ha un paio di passaggi impeccabili) ma l’impressione è di uno special sottotono.
Una piccola annotazione laterale: c’è un attimo in cui la dizione perfetta di Jeselnik si incrina perché gli viene da ridere. Il pubblico applaude divertito quel momento di umanità, ma il comedian intima agli spettatori di stare zitti, senza apparente ironia. La mania del controllo che lo rende così perfezionista qui ha rivelato il suo lato oscuro.
Molto interessante il finale dello spettacolo, durante il quale Jeselnik abbandona le one line per cimentarsi in un breve racconto, comunque puntellato di battute. Parla di quando ha accompagnato una sua amica ad abortire, e riesce a trattare l’argomento provocando i suoi spettatori e il loro punto di vista con joke sibillini, senza mai cadere da quella lama di rasoio.
Visto il modo originale con cui ha chiuso Fire in the Maternity Ward, c’era grande attesa rispetto al nuovo special e in molti si chiedevano se Jeselnik avrebbe proseguito con la formula pura del one liner o (anche solo per sfuggire al rischio di risultare ripetitivo) si sarebbe invece aperto a monologhi più coesi dal punto di vista tematico.
Bones and all, uscito lo scorso 26 novembre, celebra i vent’anni di carriera di Jeselnik. E come festeggiarli meglio, se non proclamandosi ancora una volta il migliore? Si parte subito con la spavalderia alla quale il comedian ci ha abituati e con un racconto meta sulla sua comicità; il mini-monologo di apertura sulle persone trans, con un po’ di ironia sul trend del momento che non risparmia i colleghi, conferma la distanza tra l’atteggiamento di Jeselnik e quello dei vari Chapelle e Gervais: i joke del primo sono lindi da qualsiasi questione personale, il che li rende più asettici e meno livorosi. Questa freddezza espositiva, che è senza dubbio uno dei punti di forza del comedian (il cui personaggio si fonda appunto su un cinismo privo di emozioni), ha anche dei lati negativi: nel bit successivo Jeselnik riprende un suo cavallo di battaglia, quanto odia i bambini, ma esprime questo suo odio non con racconti “personali”, ancorati più o meno ad una realtà nella quale il pubblico potrebbe riconoscersi, ma con le solite one line affilate che, nella loro esagerazione, rivelano sì quanto sia edgy Jeselnik ma anche quanto sia fittizio. E se per un po’ la maschera del cattivo funziona, alla lunga perde progressivamente la sua carica divertente perché rivela sempre più la sua natura di esercizio di stile.
Poi lo show decolla, e tornano le battute micidiali con ottime misdirection: “I was in a bar the other night, saw my favorite porn star of all time sitting at the end of the bar by herself. I couldn’t believe it. I called the bartender over: Man, I’ll have another beer. And see that girl down there? She shouldn’t be here. She’s 13.”
Man mano che guardavo lo show, mi convincevo che il limite più grande delle one line è la loro nudità: arrivano senza contesto che le giustifichi e questo in qualche modo non facilita la sospensione dell’incredulità da parte degli spettatori, i quali più che con altri generi comici rimangono sempre in allerta perché si aspettano la punchline. Il one liner è per definizione poco credibile: ogni cosa che dice è un pretesto per fare battute (“L’altra notte ho visto il mio vicino uccidere sua moglie” dice Jeselnik, risultando ovviamente inverosimile). E’ tra l’altro forse questo il motivo per il quale si tratta di uno stile che non fa impazzire i/le comic*: abituati più degli spettatori a elaborare joke e a costruire misdirection su misdirection, di fronte a un collega battutista tendono ad anticipare le chiuse o almeno a riconoscere le strutture delle battute, perdendo il divertimento.
In generale, l’assenza di narrazione coinvolge meno gli spettatori, non fa abbassare loro la guardia. In quello stato, per sorprenderli serve una sorpresa fortemente inaspettata. Nel corso della sua carriera Jeselnik continua a dar prova di esserne capace, alla grande, ma col tempo a mio avviso si percepisce la crescente difficoltà.
Prima di chiudere lo show, c’è tempo per un ricordo di Norm Macdonald, nel quale traspare finalmente un sentimento dall’algido cuore di Jeselnik.
Lui rimane, dal mio punto di vista, uno dei comedian più lucidi della scena internazionale, e a dimostrarlo basterebbe il rant contro i comici che si lamentano della cancel culture (ne ha anche per Joe Rogan e i suoi fan), che chiarisce in poche, divertenti parole, il suo parere, chiudendo la discussione: “It’s not that hard. Do your job”.
Aldilà degli alti e bassi degli ultimi show, credo che un’intelligenza così possa dare ancora molto alla stand-up comedy: affidiamo a lui l’onere di portare avanti la complicata arte del black humor. Che le sue one line possano illuminarci la via.
Segnalazioni
In questa puntata della newsletter Funny How si ragiona attorno a un articolo del New York Times che tra le altre cose offre spunti a proposito di comicità liberal, comicità di destra e del perché una sembra più in forma dell’altra.
“La comicità non ha regole, ma solo effetti” e altri pensieri di Luca Ravenna sull’umorismo.
Stefano Rapone ospite del podcast di Daniele Rielli, con una bella discussione su comicità e politicamente corretto.
L’angolo autoreferenziale
Dicembre mi ha visto in giro sia col mio primo one man show che col secondo, tra Bergamo, Bolzano e Sicilia. L’avvicinarsi delle feste riduce un po’ le occasioni, ma conto di ripartire nel 2025 con tante date e succose novità.
Dove vedermi live
Venerdì 20 dicembre sarò al Circolo San Luis di Milano per l’open mic organizzato da Matteo Zaffarano.
Domenica 12 gennaio torno con gioia al Don’t tell mama, per la pazza serata gestita da Elisa Marinoni.
Reparto Zelig: a Milano proseguiamo la battaglia di roast tra comedian, la prossima sfida avrà luogo sabato 21 dicembre, quella successiva sabato 11 gennaio.
Il video alla fine
Nikki Glaser la tocca sempre piano.
Se non ci sentiamo prima, buon Natale e buon anno!