Jim Jefferies, storyteller
Tutti i racconti e le battute, dall'esordio allo show agli Arcimboldi
Raccontami una storia
Come avevo annunciato nell’ultima puntata di Tendenza Groucho, ho colto l’occasione dell’arrivo di Jim Jefferies in Italia (si è esibito agli Arcimboldi di Milano lo scorso 19 aprile) per rivedere gli special di questo comico australiano. Il binge watching e il live mi hanno confermato che si tratta di uno dei migliori comedian in circolazione, più consapevole di molti colleghi rispetto al significato del suo lavoro e capace perciò di stare al passo coi tempi senza perdere un’oncia della sua comicità.
Apritevi una lattina di birra, e cominciamo.
Recuperato su Youtube, Contraband è datato 2008, e lo si capisce anche dal fatto che all’inizio Jefferies ringrazia il pubblico per essere venuto alla registrazione del suo primo DVD, che per chi non lo sapesse è un arcaico manufatto umano di forma circolare sul quale venivano incisi spettacoli, concerti e film, tutte cose di un passato perso tra le nebbie del tempo.
In prospettiva, questo show contiene già molti dei pattern che il comedian replicherà in tutta la sua carriera, qui ancora un po’ acerbi ma abbastanza rodati da funzionare.
Innanzitutto, si scorgono i tratti che lo porteranno a essere un grande storyteller che porta sul palco episodi della sua vita, racconti di persone che ha incontrato, riflessioni estemporanee. Come farà spesso, ad un certo punto si siede a bordo palco, quasi a cercare una dimensione più comoda nella quale raccontare.
Al centro di questo universo narrativo c’è la famiglia, fonte di affetto e incomprensioni: in Contraband Jefferies parla della nonna, morta di recente: “She had dementia or as I like to call it, honesty”. Un primo esempio della sua brutalità leggera, che gli permette di fare battute atroci senza mai risultare davvero pesante. Un suo pregio è proprio il non essere mai gratuito, non nel senso che dietro le battute ci sia sempre un ragionamento profondo (cosa che comunque accade non di rado) ma che la priorità non è scandalizzare, ma far ridere. Quando accosta la casa di Anna Frank all’outlet del porno c’è certamente la scelta di due poli estremamente distanti tra loro, ma la risata non scaturisce dal dileggio della vittima dei nazisti ma dall’immagine che Jefferies da di sé, talmente abietto da preferire il sesso a una visita in un luogo simbolo dell’Olocausto.
L’atteggiamento che ha sul palco rafforza questa strategia comica: non ha mai un tono serioso, è solo un uomo che parla di ciò che ha visto nel mondo, che sia un’uccisione da un elicottero a Baghdad o suo fratello che piscia sul tappeto in soggiorno, che stia facendo un pezzo contro le religioni (inserendo uno dei bit più espliciti sui musulmani che io abbia mai sentito), uno sul suo cancro al pene, con annessa campagna pubblicitaria di sensibilizzazione al problema, o un resoconto di una serata al Comedy Store di Manchester quando è stato aggredito da uno spettatore.
L’altro grande tema che accompagnerà Jefferies fino ai giorni nostri è l’alcol, qui presentato quasi come necessità filosofica: in una routine magistrale, che poi riproporrà perfezionata in I swear to God, spiega che “Anyone who doesn’t drink is a boring cunt” perché se non bevi tutte le tue storie fanno schifo, ma soprattutto che a nessuno piace il sapore, ma si beve perché la vita è una merda.
E’ proprio a causa dell’alcol che all’inizio dello show il comedian mantiene lo sguardo cupo e spento un po’ troppo a lungo, ma pian piano si sblocca e da quel momento non torna più indietro. Contraband è già molto divertente: i testi sono fortissimi, sostenuti dall’abilità espressiva (che esploderà negli special successivi) nell’usare i toni di voce, la mimica e la sua fisicità.
Una curiosità. questo special finisce in maniera strana: dopo aver chiesto alla regia quanto tempo ha ancora (perché c’è un altro spettacolo dopo il suo), Jefferies decide di fare un cavallo di battaglia, la storia degli ovetti anali, chiedendo al pubblico che già la conosce di non bruciargli le punchline; dopodiché recita quel monologo in maniera quasi automatica, molto veloce, proprio per star dentro il minutaggio rimasto, riducendo così l’efficacia del tutto. Una cosa che non ci si aspetterebbe da uno special registrato, ma che in qualche modo contribuisce alla spontaneità del personaggio.
I swear to God (2009) arriva quando Jefferies si è appena trasferito negli USA. Include diversi pezzi di Contraband rifiniti: quello sul concetto di paradiso e beatitudine eterna, che poi sfocia in una lunga (e imbattuta) tirata contro il cristianesimo, quello del vibratore trovato in garage quando lui e suo fratello erano piccoli, l’incomprensione nel locale gay in Sudafrica, l’ovetto anale. Per chi fa il comico è molto interessante fare il raffronto tra i due show perché è la dimostrazione di come i pezzi crescono, evolvono, e non solo perché si trovano nuove battute o parole migliori per joke già scritti, ma anche perché l’attitudine e il modo di dirle (frutto di allenamento e esperienza) migliorano di molto la riuscita dei monologhi.
Tra i pezzi nuovi, il racconto della partita di calcio Australia-Brasile ai mondiali di calcio in Germania nel 2006 che lui e il padre sono andati a vedere e la rievocazione delle prese in giro che Jim e suo fratello facevano alla madre perché era grassa: la conferma definitiva della centralità nelle opere di Jefferies degli affetti più cari, che sono quelli più invadenti e più terribilmente esilaranti.
Il suo personaggio è già ben costruito: un cazzone, abitato da bassi istinti, ma capace anche di riflessioni sulla società.
Affrontiamo ora il topic più caldo quando si parla di Jefferies: le donne. E’ innegabile che il comedian abbia un linguaggio estremamente crudo, e sicuramente diverso materiale nasce da un rapporto a dir poco conflittuale, che lui non fa nulla per celare. Ma se si analizza meglio quello che esprime, mi pare che risulti sempre meno problematico di quanto sembri a prima vista.
Quando ad esempio dice che gli uomini sono migliori perché a differenza delle donne non rinfacciano mai la dimensione dei genitali della partner, sta ovviamente attuando un’esagerazione il cui obiettivo però non sono le donne, ma un’ipocrisia che lui sente presente nella società (si può scherzare sui peni piccoli, non sulle vagine larghe). Allo stesso modo, se Jefferies rivela alle donne che fingono l’orgasmo pensando di compiacere l’uomo che a lui non frega niente non lo fa per cinismo o misoginia ma perché legge in questa contrapposizione l’occasione per ribadire che il sesso (la vita) andrebbe presa con meno pressione. Persino il pezzo sulle sluts, pur essendo pieno di immagini scabrose, non contiene neanche un briciolo di shaming, anzi.
Questo non significa che sia tutto pacifico o che Jefferies non esprima a volte concetti oltre il limite: Alcoholocaust (2010) inizia con un monologo dedicato a donne, gay e lesbiche che riprende praticamente tutti i luoghi comuni su queste tre categorie (“Women are a bunch of cunts”), e non bastano una serie di battute perfette a nasconderne i difetti, specie nelle parti più inaccettabili, come quella sulla donna picchiata dai quattro mariti che ha avuto. Nel successivo Fully functional (2012) l’australiano sostiene che non potrebbe essere gay perché non farebbe mai sesso con un uomo, dato che “non potrei mai scopare qualcosa che rispetto”. Quando sentii per la prima volta questa battuta mi entusiasmò per la sua esplosività; se da comico la ritengo ancora un’intuizione geniale, da maschio oggi non posso fare a meno di chiedermi se quell’esplosività che le attribuisco non racconti qualcosa di scandaloso del maschile, se non scoperchi una concezione del sesso adolescenziale e predatoria, che solletica un istinto incel che solo Jefferies ha il coraggio di portare alla luce, fermandosi però anche lui un attimo prima di elaborarlo.
Alcoholocaust e Fully functional chiariscono quanto scrivevo prima sulla gratuità e sulla provocazione in Jefferies. Qui l’australiano è infatti ancora nella fase in cui il gusto per la battuta supera ogni altra cosa: l’aneddoto sulla ragazza che gli ha offerto un passaggio dopo un provino finisce con un rape joke perché è la scelta della punchline più forte a condurlo inevitabilmente a quella conclusione. Non c’è ovviamente nulla al di sotto di quella battuta se non la gioia di aver partorito un’idea comica forte e provocatoria. E’ lui stesso a dire che funziona così, quando spiega che Alcoholocaust è solo una parola divertente, una scusa per scherzare su Auschwitz scandalizzando (e divertendo) la platea. Credo sia normale nell’evoluzione di un comedian passare da questa fase; quello che riesce a Jefferies (e che invece manca a molti altri suoi colleghi) è sviluppare col tempo un pensiero comico più maturo (come dicevo all’inizio, più consapevole), che gli farà sempre tenere la barra dritta preservando però quella scintilla creativa anarchica e immorale che entro un certo limite è necessario mantenere.
Il discorso sui bambini che a scuola vengono premiati per qualsiasi cosa, sul fatto che si sostengano quelli che rimangono indietro e che in generale non si sia disposti ad ammettere la stupidità, in altre mani avrebbe potuto scivolare in una reprimenda ante litteram contro la woke culture, mentre con Jefferies rimane un più ragionevole contrasto a un’educazione incapace di far accettare le difficoltà.
Entrambi questi special hanno momenti memorabili. Il monologo di più alto livello in Alcoholocaust è quello sulla depressione (tema che pur non emergendo mai in maniera compiuta gioca un ruolo importante per Jefferies): una riflessione sull’ambiguità del crescere con dei sogni e una lucidissima analisi di sé stesso che illumina la disperazione in maniera spiazzante e liberatoria.
Poi avviene una magia: alla fine della sua tirata contro la religione fa un call back eccezionale che pone sotto un’altra luce i monologhi precedenti e le loro parti problematiche. E’ sicuramente più un virtuosismo comico che un vero ribaltamento prospettico (che se c’è, è comunque quello degli spettatori e non di Jefferies), ma ha una forza che almeno in parte redime i peccati della prima mezz’ora dello show.
In Fully functional troviamo invece un nuovo pezzo contro la religione (che parte conciliante ma si rivela ancora più cattivo dei precedenti) che propone l’esilarante imitazione di Dio ad un party e due routine 100% Jefferies, capace sia di portare avanti su un aneddoto per parecchi minuti sia di puntellarlo di battute, momenti epici, acting (la sua dumb face è straordinaria). L’ultimo, in particolare, parla di una notte passata dal comedian nella sua camera d’albergo con un altro comico (allora molto più famoso e potente di lui) e due ragazze, rivelando il comportamento violento del collega; a dispetto dell’argomento, Jim ne parla col suo solito tono leggero, riuscendo però a non sminuire la cosa. Come se non fosse già abbastanza difficile inserire questa storia in un show comico, Jefferies, nonostante potrebbe benissimo dipingersi come l’eroe del racconto, mantiene il suo stile dipingendosi comunque come una brutta persona. Quello che ne viene fuori è un racconto disturbante (che forse oggi terrebbe più conto del punto di vista delle due ragazze) che sancisce il suo essere un mostro sacro dello storytelling comico.
Bare (2014), il primo special targato Netflix, conferma tanto i punti deboli quanto quelli forti. Se il confine tra prospettiva maschile e prospettiva maschilista viene superato con il lungo pezzo iniziale in cui Jefferies parla dell’essere diventato padre per finire a lamentarsi classicamente della moglie che spende tutti i suoi soldi, Jim si dimostra comunque molto conscio delle implicazioni di quello che dice, al punto da riuscire (quando vuole) a ribaltare le sue stesse battute problematiche rendendole premesse di punchline ancora più forti. Vedere per credere:
Ma, soprattutto, questo show contiene il famosissimo monologo sulle armi (che lo renderà finalmente mainstream): uno degli apici della satira contemporanea sull’argomento. Jefferies è in stato di grazia, clamorosamente divertente, esprime le sue idee con una chiarezza invidiabile; i ragionamenti sostengono le battute e le battute rafforzano i ragionamenti. In poche parole: è così che si fa stand-up comedy.
In Freedumb (2016) prova a smarcarsi dalla nomea di comedian politico (dovuta al pezzo sul gun control), ma ci tiene a dire la sua sulle imminenti elezioni prendendo in giro Donald Trump e i suoi elettori. Il risultato è un monologo deciso sull’uso della paura e dell’odio in politica, il che sembra cozzare col suo considerarsi solo un comico che dice battute perché sono divertenti. D’altra parte, tutta la difesa delle rape jokes è poco convincente; è vero che lui è molto bravo a dire cose orribili rimanendo comunque gradevole e che sarebbe sbagliato prendere i suoi testi alla lettera senza considerare come li porta sul palco; quando esclama: “Sapete chi non ha mai ricevuto lamentele per il suo materiale? Bill Cosby!” sta però rispondendo solo a una parte delle critiche, la più facile da confutare; è sacrosanto ribadire che l’atrocità dei monologhi non corrisponde a una condotta etica immorale, ma il dibattito vero non è su questo punto, ma sull’opportunità di reiterare certi frame tossici attraverso le proprie battute. Separare totalmente il livello delle azioni dal livello del linguaggio è perlomeno ingenuo, perché le parole modellano il nostro pensiero, che a sua volta influisce (seppur non in maniera diretta) sulla realtà concreta.
In Bare, Jefferies annunciava: “Stasera dirò cose che però non penso davvero”. Mi è venuto da considerare che effettivamente i comici spesso dicono cose che non pensano, ma è sempre interessante vedere tra le mille cose che non pensano quale scelgono di dire.
This is me now (2018) non ha forse picchi altissimi come gli altri special ma resta molto godevole. Davanti a una scenografia con tanto di cabina telefonica rossa e taxi nero very british, Jefferies espone con leggiadria i suoi pensieri sul “Grab ‘em by the pussy” di Trump, ridicolizza il patriottismo anti-immigrati, riprende e sviluppa l’idea sull’interprete per i sordi durante i suoi show e racconta la vita da padre single. L’aneddoto con cui delizia il pubblico questa volta riguarda la sua esibizione come “regalo umano” per il compleanno del fidanzato di Mariah Carrey, ennesima dimostrazione non solo di che bravo narratore sia ma di quanto sia in grado di parlare delle sue goffaggini, dei suoi imbarazzi e fallimenti in maniera cristallina.
Intolerant (2020) rende conto dell’evoluzione della quale ho accennato sopra. Inevitabilmente, anche Jefferies come molti altri si ritrova a commentare la cultura woke, ma riesce a portare un punto di vista non ortodosso e a relativizzare il progressismo delle nuove generazioni senza per questo denigrarlo in toto. “Lasciate che i vecchi facciano i vecchi. Tanto moriranno presto, no?”.
Anche il discorso sul fat-shaming (che collega i problemi alimentari ad altre forme di dipendenza), pur avendo esagerazioni (ma quale monologo comico non ne ha?) è sostenuto da un pensiero arguto, condivisibile o meno, ma pur sempre valido ad allargare il campo delle idee, e questo è un bene.
E’ evidente che Jefferies abbia ragionato sul mestiere del comico. Secondo lui, consiste nell’arrivare vicinissimo al limite; come nel gioco d’azzardo, non sempre si vince. Le sue vecchie battute, quando sono state fatte, erano al limite, ma non lo superavano, quindi erano socialmente accettabili. Poi le cose sono cambiate e il limite è stato sposato indietro: nulla di male, anzi lui è d’accordo, per questo non fa più quel tipo di battute, rimanendo entro il nuovo limite; a lui sta bene, ma non trova giusto che venga criticato perché le vecchie battute superano un limite che allora non c’era. Credo sia un ragionamento sensato: è corretto guardare in maniera critica il passato, tenendo sempre a mente che la cultura è cambiata. L’unica cosa che mi sento di aggiungere è che bisognerebbe avere anche la consapevolezza che non è il tempo ad aver reso le battute offensive: lo erano già all’epoca ma allora non ci si rendeva conto o, peggio, non era importante perché il bersaglio erano persone poste ai margini, che non contavano nulla.
Ancora una volta, Jefferies costruisce lo special attorno a un racconto: una cena in un ristorante di lusso durante la quale ha deciso di sfidare la sua intolleranza al lattosio mangiando quintali di formaggio e gelato, col risultato che tutti immaginate. Tra divagazioni, scenette, imprecazioni contro i camerieri francesi (ma ne ha anche per gli italo-americani) si dipana una storia esilarante, uno degli apici dell’acting e della mimica dell’australiano.
Il titolo di quello che ad oggi è l’ultimo show Netflix di Jefferies, High & Dry (2023), si riferisce alla sua decisione di Jefferies di smettere di bere e di passare all’erba. Una notizia che ha sconvolto i fan di Jim, poco abituati a vedergli prendere decisioni sensate.
Lo spettacolo è simile al precedente: dagli aneddoti partono diramazioni divaganti, per poi tornare al punto e allontanarsene subito dopo. Vengono scelti temi caldi trattati con intelligenza: il bit su Greta Thunberg, forse non proprio il meglio del suo repertorio, ruota comunque attorno a una consapevolezza (su quanto sia problematico prendersela con una donna che quando ha iniziato le sue battaglie era minorenne e su quanto queste battaglie siano effettivamente giuste) che altri comedian non hanno, e per questo risulta un gradino sopra molte battute simili di suoi colleghi più o meno famosi. L’osservazione che fa sulla comunità LGBTQ, ovvero che i membri appartenenti a ciascuna lettera non hanno nulla in comune, non è una di quelle classiche battute da middle-aged man ma un modo per far riflettere sul pericolo di ghettizzazione e privazione della specifica identità personale quando si ragiona per etichette. Anche il pezzo sulle persone transgender, ovviamente espresso dal punto di vista di un maschio cis, non ha nulla di irrispettoso nei loro confronti, concentrandosi sugli aspetti più pittoreschi delle operazioni di transizione. In fondo, dice Jefferies, le persone trans sono persone che hanno vissuto o stanno vivendo un’intensa esperienza di vita, e lui prova della sana curiosità per chiunque abbia una storia da raccontare.
A onore del vero, High & Dry si chiude con quella che è forse la battuta più cattiva della sua carriera.
E siamo così arrivati al Give 'em what they want tour, che ha portato Jefferies agli Arcimboldi. Su un palco dotato di poltroncina e tavolino, Jim propone uno show che per stile potrebbe essere considerato il sequel del precedente, folle e da morir dal ridere.
Durante la serata tiene il microfono lontanissimo dalla bocca, quasi senza neanche puntarlo verso la faccia. Parla di sesso durante il covid (e delle regole britanniche al riguardo), si appassiona in un rant contro gli attori, spiega che tutti coloro che hanno i baffi, quando se li radono, ad un certo punto si fermano e fanno la Hitler’s face, propone un pezzo fortissimo su Michael Jackson, sciorina un po’ di stereotipi legati alle nazioni (Italia compresa), rivela perché i sordi sono le persone peggiori del mondo e regala un bellissimo aneddoto su John Cleese. Non mancano i momenti provocatori, gestiti come sempre alla grande: esprime giudizi sulla cancel culture, ma senza vittimismo. Quando cita la gay conversion therapy lo fa per effettuare un ribaltamento: è l’etero ad essere contronatura e a vergognarsi dei suoi istinti disgustosi. Uomini e donne non sono fatti per stare assieme. Ovviamente, largo spazio è dato alla famiglia: parla della morte dei suoi genitori, apparentemente in maniera toccante per poi virare subito sul comico. “Mia madre è morta poco prima del covid ed è un peccato, perché lo avrebbe amato”. Fa il migliore omaggio che un comedian possa fare al padre scomparso: renderlo immortale con un pezzo divertentissimo.
Vedere Jefferies dal vivo mi ha confermato che è uno di quei comedian che riesce sempre a essere davvero presente, a parlare col pubblico che ha davanti. A Milano, in diversi momenti, ha improvvisato con gli spettatori (quando per un lapsus ha detto “madre” al posto di “moglie” ci ha scherzato su). In generale, si vede che cerca davvero il contatto visivo: ancora in Intolerant si siede a bordo palco ed è praticamente al tavolino in prima fila con gli astanti. A volte si impappina e commenta la sua goffaggine, a volte fa commenti evidentemente non preparati. La prendo come una parziale risposta al dubbio che mi sono posto più volte su quanto il successo (e il conseguente esibirsi in posti sempre più grandi di fronte a persone diventate fan) influenzi la performance fino a modificare l’essenza della stand-up: Jefferies dimostra che c’è modo di preservare il prezioso qui e ora.
In chiusura, voglio spendere qualche altra parola sullo storytelling di questo comico. L’amore per le storie è amore per la vita, e di primo acchito fa strano che da alcuni special emerga invece una visione pessimista dell’esistenza. Ma il fatto che pensi che la vita faccia schifo non l’ha reso cinico: per sua stessa ammissione è piantato nel fango del mondo. Le droghe, l’alcol, il sesso servono a rendere sostenibile ciò che dovrebbe atterrirci ma sono anche strumenti per esperire la vita al massimo.
Il senso della vita, sembra dirci Jefferies, è la vita stessa, non ha bisogno di null’altro, se non di una persona che sappia esprimerla col giusto punto di vista. A ben vedere, questa poetica era già racchiusa nell’aneddoto di Contraband, il suo primo special, dedicato ai due ragazzi con paralisi cerebrale che ha accompagnato in spiaggia: lo human spirit che Jim esalta comicamente non è solo quello del paziente che fissa le tette delle donne in topless e decide che una delle passanti è troppo brutta per lui, ma è quello che accomuna tutti noi, che ci rende simili e fratelli.
Quando, in I swear to God, Jefferies parla del suo amico affetto da distrofia muscolare per i primi lunghi minuti non ci sono battute: l’intento non è quello di far ridere, ma di infondere nella storia qualcosa che la rende meritevole di essere ascoltata. In tutti i suoi racconti c’è questa sensazione: che in quel momento, un nostro simile ci stia parlando di qualcosa che tocca le nostre corde. E una volta che le ha toccate, ci suona una musica esilarante.
Segnalazioni
La BBC racconta la scena stand-up cinese.
Una lunga intervista di Francesco Menichella a Valerio Lundini per GQ.
Vulture parla dei programmi TV serali con Ryan Williams, la mente dietro il Late Late Show.
L’angolo autoreferenziale
Dove vedermi live
Martedì 23 maggio mi troverete in un posto nuovo: il Meneghino di Milano, assieme a Elisa Benedetta Marinoni e Antonio Ricatti in una serata presentata da Marco Los.
Venerdì 26, in occasione del Beer Bang Festival di Merone, sarò l’MC di un evento unico: lo show di Alessandro Ciacci in apertura al concerto dei Gem Boy. Compagno di questa mirabile avventura, Jonathan Lionetti.
Il buon Ciacci porterà il suo spettacolo in Brianza anche due giorni dopo, domenica 28, al Griller Hop di Monza, con l’apertura di Giorgio Brambilla e la mia conduzione.
Mercoledì 31 chiudiamo maggio con Giuseppe Ciuffreda e Laura Pusceddu al Wipe Out di Paderno Dugnano, inframezzati da Irene Tramontano.
Per quanto riguarda giugno, giovedì 8 sarò all’open mic del Circolo Bovisa, ospitato da Simone Vanini, mentre domenica 11 proseguo con la rassegna al Griller Hop.
Dovrebbero aggiungersi altre date, quindi seguitemi su Instagram per restare sempre aggiornati.
Il video alla fine
Angelo Amaro ha pubblicato un suo set girato all’Off Topic di Torino.
Appuntamento sempre qui, tra un mese. Alla prossima!