Partner, figli, amici e parenti
Ho detto diverse volte che una delle cose che più mi affascina della stand-up comedy è la possibilità di essere “sinceri”. Questo aggettivo va messo tra virgolette e si potrebbe discutere a lungo su cosa significhi effettivamente nell’ambito di una performance artistica, che in quanto tale ha per forza un grado di finzione; ma non voglio concentrarmi su quello: dando per scontato che con sincerità mi riferisco al parlare esplicitamente di sé e al fatto che la stand-up sembri in qualche modo favorire questo tipo di approccio, vorrei invece ragionare su alcuni aspetti di una simile impostazione.
In particolare, mi sono chiesto le implicazioni del parlare di sé stessi in scena in rapporto con le persone coinvolte nella vita del comico. Degli esempi concreti mi aiutano a chiarire l’area che voglio indagare: fino a che punto è giusto che un comedian parli della sua relazione, rivelando al pubblico dettagli che coinvolgono la propria o il proprio partner? Raccontare i figli sul palco viola la loro privacy? E’ accettabile esporre la malattia di una persona cara?
Questo problema viene ovviamente amplificato nel caso di comici famosi: pensiamo alla portata delle parole di Jim Jefferies sul carattere orribile di sua madre o sulla moglie antivaccinista, oppure a Chris Rock che racconta davanti alla platea planetaria di Netflix di aver tradito la moglie, per citare solo due dei comedian di cui ho già parlato in Tendenza Groucho.
Vale però anche al di fuori del mainstream, dove ci si rivolge a un pubblico più sparuto ma che magari conosce direttamente le persone coinvolte nel racconto del comedian.
Innanzitutto, credo sia necessario affrontare un’obiezione di carattere generale che si può sintetizzare così: aldilà della tecnica oratoria che simula la sincerità, gli spettatori stanno comunque assistendo a uno spettacolo, che è sempre fiction; il patto è che quello che dice il comico non è “reale”, o almeno non come lo sarebbe una confidenza fatta a un amico. Non avrebbe quindi senso porsi problemi che riguardano un ambito (quello dei rapporti personali) che esula dal territorio dell’arte.
Non sono d’accordo: intanto perché qualsiasi opera, anche la più astratta e scollegata dalla realtà, si rivolge alla realtà stessa o comunque interagisce con essa. Il “messaggio di un quadro” (espressione bruttissima, ma ci siamo capiti: intendo quello che il quadro vuole esprimere) influisce su come lo percepiamo e valutiamo: aldilà della tecnica usata per dipingerlo, Guernica è considerato un capolavoro anche perché rappresenta un’intensa e accorata accusa contro gli orrori della guerra.
Questa dinamica, poi, è ancora più centrale nella stand-up comedy, nella quale si acuisce l’ambiguo rapporto tra vita e arte: l’importanza di Nanette consiste (anche) nel fatto che noi crediamo a Gadsby quando ci racconta la sua vita e i suoi dolori. Se domani scoprissimo che si è inventata tutto e che in realtà è un’eterosessuale che ha avuto un’esistenza tranquillissima, avrebbe meno valore il suo show? Secondo me dipende da cosa intendiamo in questo caso con “valore” (valore comico? Valore umano?), ma comunque questa incertezza sulla risposta indica proprio che non è possibile ignorare il peso che diamo alla sincerità nella stand-up comedy.
Certo, poi ci sono delle eccezioni, anche notevoli: è palese che chi fa black humor non stia davvero parlando di omicidi e violenze che ha commesso. Se tutti i comici che hanno battute sul fatto di essere pedofili lo fossero davvero, le carceri sarebbe posti molto più divertenti. Ma anche in questi casi nei quali è evidente che il comedian abbia alzato il livello di finzione c’è chi riconosce una certa autenticità nelle sue parole (l’eterna questione circa il fatto che il comico creda o meno a quello che dice), altrimenti non si spiegherebbe perché ci sono persone che (a volte a torto, a volte a ragione) si offendono per battute razziste, misogine, ecc.
Fatta questa lunga premessa, le mie considerazioni da qui in avanti partiranno dal presupposto che il pubblico dia credito alla “verità” di quanto il comedian sta dicendo a proposito di sé e degli altri.
La prima domanda da porsi allora credo sia: perché un comico dovrebbe parlare di sé e di chi gli sta attorno? La mia risposta è che, nell’arte in generale, il trattare fatti concreti, quotidiani, anche minimi, è un mezzo potentissimo per raggiungere l’universalità. Dietro di essi si cela l’essenza dei rapporti umani, le verità interiori che riguardano tutti. Ascoltare Patton Oswalt raccontare della moglie scomparsa è una riflessione collettiva sul lutto e sulla morte. La condivisione da parte del comedian di una sua esperienza alimenta il discorso pubblico su temi rilevanti per la comunità e per ciascuno di noi singolarmente.
Pensiamo adesso ai numerosi monologhi dedicati alle recriminazioni nei confronti del o della partner: visti nella prospettiva che stiamo delineando, anche la rabbia espressa in essi verso un’altra persona ha un valore, perché illumina un aspetto oscuro delle relazioni non facile da affrontare (la conflittualità) e, trovando le parole per farlo, rendendolo dicibile, apre lo spazio per un’elaborazione della questione. Lo stesso discorso potrebbe valere sui pezzi dedicati ai figli, che normalizzano i pensieri disturbanti che possono capitare a un genitore.
Sono convinto che lo stand-up comedian assuma su di sé un ruolo molto impegnativo (attenzione, le parole che seguono possono risultare pompose): mostra sé stesso come solitamente le persone non fanno nei contesti sociali e mette a disposizione la sua vita per il bene superiore della collettività, che attraverso quei monologhi ragiona su sé stessa.
Per ridurre il rischio di retorica: credo anche che poi nel concreto non sia sempre una questione di così alta rilevanza. Non tutti i monologhi sono una disamina accurata e profonda dell’animo umano (ma d’altronde non vale meno la comicità “leggera”), non tutte le battute sul proprio padre sono un attacco al suo modello educativo, non tutti dettagli delle vite degli altri che si portano in scena sono una gogna pubblica.
Questa dinamica, sicuramente positiva almeno nell’accezione che ho descritto prima, ha però una dose di problematica non trascurabile, perché quello tra il comico e il pubblico è un rapporto di potere, nel quale il comedian stabilisce (senza possibilità di contestazione) i frame nei quali inquadrare i temi trattati: la sua diventa l’unica narrazione delle vicende delle quali sta parlando; non avremo mai il punto di vista di “quella stronza” che ha lasciato il comico.
In ogni caso, anche quando il comico parla di un’altra persona senza esprimere giudizi negativi, rimane il problema della condivisione col pubblico di dettagli riservati. Passiamo quindi un attimo dalla parte delle persone coinvolte: generalizzando un po’, avere a che fare con un comedian vuol dire relazionarsi a una persona che ha la vocazione all’esporsi in pubblico. Entro un certo limite, è necessario accettare questa sua attitudine. La questione, però, ovviamente non si esaurisce mettendo l’onere nelle mani di sta accanto al comico: intanto perché non sempre si sceglie di essere in relazione con lui (pensiamo alle figlie di Louis C.K.) e poi, soprattutto, perché anche quando lo si fa i rapporti si costruiscono in due ed è la parte attiva nel violare la privacy della coppia (in questo caso il comico) a dover essere più attenta nei confronti del/della partner.
Quali accortezze dovrebbe dunque usare il comedian in questo terreno estremamente delicato? Non ho molti consigli, ma un paio di cose penso siano valide.
Nei suoi monologhi, il comico dovrebbe cercare di restituire la complessità. Non si tratta di rinunciare alla propria visione del mondo, ma ad allenarsi ad includere in essa più prospettive possibili (le voci delle persone reali che popolano i racconti portati in scena), sforzandosi di stanare i propri punti ciechi e mettendo in discussione sé stessi per primi.
Inoltre, dovrebbe avere l’onestà intellettuale di capire i veri motivi per i quali ha scritto una battuta (a volte, potrebbe succedere di scoprire d’aver pensato a un joke per mera ripicca) e valutare se vale davvero la pena dirla in pubblico.
Infine, chiedere il consenso alle persone citate nei propri pezzi di dire sul palco determinate cose su di loro mi sembra di buon senso ma nella pratica non sempre applicabile e per certi versi anche limitante: il comico ha il dovere di essere il più libero possibile e di difendere l’importanza di quello che vuole comunicare. Ma questo deve essere sempre accompagnato dalla consapevolezza che, quando è in scena, in gioco non ci sono soltanto l’arte e la libertà, ma anche il rispetto nei confronti degli altri, la riservatezza, la fiducia di chi ti sta accanto. Sta al comedian prendersi la responsabilità di stabilire di volta in volta, in un processo che è sempre in divenire, l’equilibrio tra tutti questi valori.
Segnalazioni
La mitica comedian Joan Rivers, morta nel 2014, ha lasciato un archivio con 65.000 battute dattiloscritte.
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L’angolo autoreferenziale
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Da nessuna parte. Almeno fino a settembre, quando, puntuale come la scuola, ripartirà la stagione. Stay tuned.
Il video alla fine
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