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Non è mica da questi particolari che si giudica un comedian
Da qualche tempo noto che si è sviluppata una corrente di pensiero nella scena comica italiana che ridimensiona molto l’importanza delle battute, fino ad arrivare, in certi casi estremi, a una svalutazione artistica di quei comedian che basano su di esse il loro repertorio. Ovviamente è solo una delle tante concezioni che esistono nel panorama, probabilmente non è quella dominante e ne esistono diverse sfumature, ma mi pare sia comunque presente e sia foriera di un modo di intendere la comicità che vale la pena approfondire.
Faccio subito una grande premessa: parlo da uomo ferito, come direbbe Ferradini; la mia comicità è incentrata sulle battute e quindi mi toccano da vicino le considerazioni che vengono fatte su questo argomento.
Il motivo per cui si è sviluppata una certa “avversione” per la battuta, a mio avviso, è da ricercare nella storia della stand-up comedy in Italia: arrivata grazie alla preziosissima mediazione di Comedy Subs e diffusa per merito del collettivo Satiriasi, nel nostro paese questa forma d’arte è stata subito interpretata in netta contrapposizione alla comicità che allora era mainstream, giudicata stantia e basata su stereotipi che avevano smesso di parlare del presente. Se i primi comedian USA che il pubblico italiano ha potuto apprezzare sono stati Bill Hicks e George Carlin, e se nel manifesto del gruppo capitanato da Giardina e Montanini si leggeva chiaramente che “la risata è il mezzo e non il fine”, si capisce perfettamente il perché (soprattutto agli esordi) la direzione presa dalla stand-up comedy tricolore sia stata quella del tema sociale, se non politico, o comunque dell’espressione di contenuti “forti” e provocatori. Pur dando per scontato che il comico dovesse far ridere, si poneva l’accento in maniera nuova e più insistita sul punto di vista del comedian.
Questo approccio ha liberato grandissime energie, consentendo di fatto a moltissim* comic* di esprimere sé stess* e di sperimentare nella forma e nella sostanza. Si è trattata di una ventata d’aria fresca, un passaggio epocale, di quelli che segnano un prima e un dopo: oggi, specialmente per le persone più giovani, è naturale vedere comedian sul palco di un piccolo locale, con solo un microfono, parlare come parlerebbe coi suoi amici e amiche di un vasto campionario di tematiche inerenti alla vita che facciamo tutti e tutte.
A fronte di risvolti decisamente positivi, però, vi è stata anche una parte della scena comica che ha portato queste premesse condivisibili a conseguenze estreme e meno convincenti, arrivando a considerare la battuta come una formula non necessaria, ed anzi come sintomo di un attaccamento alla “risata per la risata” giudicato non interessante. Oggi, in alcuni ambienti, è lo storytelling a sancire il successo; al pubblico e agli organizzatori delle rassegne, ma anche agli autori dei programmi TV, interessa chi sono i comedian: la loro identità (sessuale, sociale, nazionale) è l’aspetto primario che li e le caratterizza, il “messaggio” che veicolano (la loro idea su un determinato tema, il racconto di un’esperienza vissuta) è l’elemento discriminante per stabilirne la spendibilità (mediatica e non).
In questo contesto, la battuta è vista come uno sfoggio di tecnica “neutro”, un virtuosismo: non esprimendo la natura intima del comico e della comica, risulta meno interessante per chi ricerca la personalità dei e delle performer. Banalmente: chiunque può scrivere una battuta one line, ma solo Richard Pryor può raccontare l’essere neri come fa Richard Pryor.
Come dicevo prima, questa non è la tendenza dominante, ma una delle correnti che si contendono il terreno: è innegabile che, parallelamente al fenomeno che sto descrivendo, assistiamo anche a un movimento contrario (altrettanto consistente e altrettanto problematico), ovvero al disimpegno totale di comic* che si tengono alla larga da contenuti sociali o politici le cui battute non hanno altro scopo che l’essere divertenti, rivendicando l’assoluta assenza di attinenza con la realtà.
Concentriamoci quindi sulla battuta. E’ certamente vero che laddove vi sia una predominanza assoluta di questa struttura comica sia più difficile strutturare un ragionamento più ampio. Il monologo one line, che cambia argomento praticamente ad ogni frase e non segue un filo logico, probabilmente non avrà un tema forte e unitario né conterrà riflessioni su questioni che necessitano di tempi lunghi e ritmi meno sincopati rispetto a quelli ai quali costringono le battute secche.
Anche in contesti non one line, la battuta spezza il ritmo: la sua formula prevede una punchline finale, ovvero un momento in cui la narrazione si ferma e si aspetta la risata del pubblico. Questo può disturbare l’esposizione di concetti approfonditi o se non altro rischia di distrarre il pubblico, bombardato da raffiche di joke.
Se poi l’intento è instillare nuove concezioni negli spettatori e nelle spettatrici, la battuta può rivelarsi uno strumento poco adatto. Non ricordo più dove, ma avevo letto una riflessione di Daniele Fabbri a tal proposito, nella quale il comedian spiegava che la singola battuta non riuscirà mai a proporre punti di vista alternativi al pubblico, perché il meccanismo di una battuta si basa sul riferimento a un immaginario condiviso, che chi ascolta deve già conoscere e accettare. Per innestare un cambio di mentalità bisogna preparare il terreno per far sì che il pubblico provi empatia per il/la comic*, che solo allora può portare gli astanti in territori sconosciuti.
Tutti questi aspetti devono sicuramente essere tenuti in considerazione in fase programmatica: sapere l’effetto che gli strumenti a disposizione (battute, storytelling, acting, ecc.) hanno sul pubblico è essenziale per costruire il repertorio più efficace nel far raggiungere i propri scopi sul palco, qualsiasi essi siano. Mi sembra però che sia sbagliato trarne la conclusione che sempre e per forza il monologo a battute sia in qualche modo “inferiore” rispetto ad uno più discorsivo. Penso che l’errore di fondo sia ragionare come se la battuta fosse un’entità isolata, quando nella pratica non è mai così. Se si smette di guardare alla battuta come a una monade creata nel vuoto, le sue criticità appaiono molto minori di quanto paventato.
Per quanto sia a sé stante, non esiste una battuta che vive nel totale isolamento. Anche nel caso limite di un* comic* che salisse sul palco, dicesse un’unica battuta e poi se ne andasse, il senso del suo joke andrebbe ben oltre il senso letterale della frase pronunciata e sarebbe dato anche dalla scelta di dire un’unica battuta e del rapporto che questa scelta con la tradizione comica, con lo standard attuale dei monologhi e con le aspettative del pubblico.
Inoltre, se è vero che la battuta rischia di complicare la formulazione di concetti profondi, la bravura de* performer sta proprio nel trovare l’equilibrio giusto, l’alternanza migliore tra raffica di joke e passaggi di più ampio respiro, la scelta di battute particolarmente pregnanti, il modo più divertente di esprimere il proprio punto di vista. Un compito difficile ma non impossibile.
Giudicare un comico o una comica basandosi solo sul fatto che fa battute secche è estremamente riduttivo, sarebbe come svalutare una band perché usa le chitarre. Non si tiene in considerazione che vi sono altri fattori che influiscono sulla sua qualità. Per mantenere la metafora musicale: ok, questo gruppo usa le chitarre, ma cosa ci fa con queste chitarre? Per quanto riguarda il/la comic*, anche prescindendo dagli argomenti e dai contenuti (che comunque ricoprono una certa importanza), ci sono la maniera con la quale le battute vengono dette e la presenza scenica; questi aspetti non sono accessori, al contrario, determinano ciò che i e le comedian trasmettono al pubblico, e a volte una tenuta del palco rivoluzionaria travolge tutto rendendo unico quel* performer.
Ritorniamo alla predilezione di certa parte di comici, organizzatori e autori televisivi nei confronti di quello che semplificando abbiamo chiamato storytelling. Fino a un certo punto, è una logica condivisibile: di fronte al crescente numero di comic* che calcano i palchi in tutta Italia, emergono quelli che hanno tratti distintivi. Non potendo dare spazio a tutte e a tutti, a parità di qualità comica sceglierò il/la performer che per un motivo o per l’altro spicca maggiormente, e spesso sono la riconoscibilità (caratteriale, fisica, ecc.) e gli argomenti portati (quelli più inerenti all’attualità) a segnare punti a favore. Quello che contesto è l’esasperazione di questa strategia, il ribaltamento nella scala di valori: se la chiarezza ed efficacia comunicativa/promozionale del* comedian (la possibilità cioè di affibbiargli/le un’etichetta immediatamente comprensibile: ecco il comico gay, ecco il comico guru, ecco la comica femminista…) diventa prioritaria, superando per importanza addirittura la sua capacità di far ridere, allora si passa facilmente dal proporre comicità con contenuto al proporre contenuto (eventualmente) comico. Ovviamente non c’è nulla di male, ma è una trasformazione non indifferente.
Mi sembra, insomma, che, per prendere le distanze da una comicità sclerotizzata nella quale la forma aveva marginalizzato il contenuto (un umorismo fatto di tormentoni, luoghi comuni e formule ritrite) e la risata era frutto solo di un automatismo tecnico, si sia passati a un tipo di performance che considera dozzinale qualsiasi strumento non esalti il genio intellettuale del* comedian, il cui compito è farsi portavoce della propria identità o della propria intelligenza.
Tralasciando il fatto che ci sarebbe da discutere sull’originalità e la profondità di molto repertorio dei comici e delle comiche che pretendono di essere argut* provocatori e provocatrici, rimane aperta la gigantesca questione sullo status di questo mestiere. Come ho già avuto modo di dire, io penso che prima di essere eventualmente forier* di contenuti interessanti, di provocazioni e messaggi sociali, il/la comedian debba essere un artista che fa ridere, perché è la possibilità di ridere il vero messaggio segreto di ogni pezzo comico e perché se c’è qualcosa che il/la comic* deve lasciare inderogabilmente al pubblico è un approccio dissacrante alla vita, nel senso letterale di rifiuto per il sacro, per l’assoluto.
Intendiamoci, anche il battutismo puro può sfociare in eccessi e degenerazioni, prima fra tutti la convinzione che “sono solo battute”, viatico per continuare a fare monologhi sessisti, razzisti, misogini in nome della libertà di parola e del rifiuto di accettare che ogni battuta veicola un punto di vista, del quale i e le comic* sono responsabili. Probabilmente, poi, se non si ha qualcosa da dire presto o tardi si cessa di essere rilevanti. Ma, in questo momento della mia vita da comedian, mi sento di dire che tra il rischio di avere un comico che fa ridere e basta e il rischio di avere un comico che mi dice cose intelligentissime senza far ridere, il rischio peggiore è il secondo.
Per fortuna, in mezzo ai due poli c’è grandissimo spazio, per chi ne ha voglia.
Segnalazioni
Al Festival Fringe di Edimburgo ha fatto notizia lo show Ha ha ha ha ha ha ha di Julia Masli, una clown che ogni notte chiedeva al pubblico: “Problem?” e poi cercava di risolvere ciò che attanagliava gli spettatori. Ne ha parlato anche il New York Times.
Su Il Tascabile, Francesco Sticchi conduce un analisi “politica” dell’appocundria di Massimo Troisi, con riflessioni che in qualche modo riguardano anche la sua comicità.
Il 2 e 3 dicembre Andrea Nani (già ospite di Tendenza Groucho) terrà un workshop sulla scrittura dell’assurdo presso l’Accademia del Comico di Milano. Qui tutte le info.
L’angolo autoreferenziale
La stagione per me è cominciata al Joy di Milano, uno dei primi posti dove mi sono esibito e che ha inaugurato settembre con uno show presentato da Luca Anselmi e con la partecipazione di Davide Paglia e Dado Tedeschi, tornato sul palco e travolto dall’affetto della scena comica meneghina. Quella sera è successo anche questo:
Dove vedermi live
Domani, mercoledì 20 settembre, farò mezz’ora all’Hard Rock Cafè di Milano nella rassegna gestita da Luca Anselmi. Ci sarà anche Simone Luzi. Venerdì 22 ritorno al Circolo San Luis per una serata organizzata da Matteo Zaffarano. Lunedì 9 ottobre mi esibisco alla Birrofila di Milano assieme a John Vincent, grazie a Mattia Rellini.
Nei prossimi giorni proverò un po’ di materiale nuovo nei seguenti open mic: Laughing Around di Muttolina (giovedì 21 settembre), Open, gestito da Tommaso Adami (venerdì 29 settembre), allo Shamrock Inn di Torino ospitato da Angelo Amaro (mercoledì 4 ottobre) a Zelig invitato da Daniele Raco (sabato 7 ottobre), e all’Osteria Democratica (martedì 10 ottobre).
Giovedì 28 settembre sarò l’MC della serata al Joy Milano per lo show di Giorgio Magri.
Per quanto riguarda le rassegne che presento, al Wipe Out di Paderno Dugnano avremo il one man show di Davide Sberna (mercoledì 27 settembre, con apertura di Adriano Pariante) e quello di Giordano Folla (11 ottobre, opening act di Davide Paglia); al Griller Hop di Monza ospitiamo lo spettacolo di Luca Anselmi domenica 1 ottobre (in apertura Manuel Piazza) per poi proseguire la stagione due domeniche dopo, mentre alla Birreria Majnoni sabato 14 ottobre ci sarà Giuseppe Ciuffreda, introdotto da Gennaro Berardi.
Il video alla fine
E’ uscito su Netflix il nuovo special di Michelle Wolf, una delle migliori.
Settembre è il mese del ripensamento (cit.) ma è anche il mese della ripartenza della stagione comica. Daje tutta.