My next guest needs no introduction
Prima o poi, chi si appassiona alla comicità scopre Woody Allen. Attorno alla sua figura si è costruito un vero e proprio mito, dovuto soprattutto ai primi film che lo hanno saputo imporre come un personaggio iconico, pieno di tic, nervoso, costantemente a disagio e che lo hanno rivelato non solo quale sceneggiatore incredibilmente divertente ma anche come autore dalla visione del mondo molto ben delineata e con un modo di raccontare le relazioni umane capace di toccare le corde di milioni di persone, compreso il sottoscritto.
Allen è unanimemente considerato tra gli scrittori comici più importanti della nostra epoca, e ci sarebbero decine, forse centinaia di battute a testimoniarlo. Nonostante per un certo periodo abbia praticato la stand-up, la sua fortuna presso i comedian è più legata ai lavori cinematografici che a quelli live, anche perché soprattutto da un certo momento in poi Woody ha bazzicato sempre meno i palcoscenici, frequentandoli praticamente solo in veste di clarinettista con la New Orleans Jazz Band.
Accanto alla sua prolifica attività di film maker, Allan Stewart Königsberg (questo il suo vero nome) ha anche portato avanti con una certa costanza la produzione di racconti umoristici, pubblicati nelle raccolte Getting even (1971), Without Feathers (1975), Side effects (1980) e più recentemente Mere Anarchy (2007). Tra le altre sue opere letterarie, citerei almeno l’ottima Apropos of nothing, autobiografia del 2020.
Quest’anno è uscito Zero Gravity, pubblicato in Italia da La nave di Teseo e composto da alcuni testi già apparsi sul New Yorker tra il 2008 e il 2013 e da altri scritti inediti. Nelle righe che seguono parlerò di questo libro, dunque ci saranno inevitabilmente spoiler.
La premessa necessaria è che, ovviamente, io che recensisco Woody Allen è come Di Maio che critica Berlinguer. O come Di Maio che fa qualsiasi cosa. Capita però che, in my very humble opinion, Zero Gravity abbia alcuni punti deboli, e dunque accanto agli aspetti che ritengono validi ho evidenziato anche quelli meno forti. Se, nonostante questo disclaimer, ritenete ancora oltraggioso che un umìle artigiano (cit.) si permetta di contestare anche solo parzialmente l’opus alleniano, non posso farci nulla.
Nella prefazione, Daphne Merkin spiega che “Non è facile essere divertenti” e che “Far ridere sulla pagina, dove non si può fare affidamento al ritmo, ai gesti e all’espressione del viso per punteggiare o sottolineare una battuta, può essere ancora più difficile”. Zero Gravity affronta questo problema proponendo una comicità costante ma trattenuta, ottenuta più attraverso il contenuto che lo stile o il virtuosismo spettacolare.
Uno dei modi più frequenti con i quali nel volume sono introdotti i racconti è un paragrafo iniziale nel quale Allen rievoca un buffo episodio capitatogli che gli ha fatto venire in mente un’altra storia, quella del racconto, che verrà narrata direttamente dal o dalla protagonista. Spesso i personaggi appartengono allo showbiz, che l’autore descrive come un mondo di pazzi, imbroglioni e disperati: attori strampalati, produttori ciarlatani, scrittori squattrinati, tutti ad arrabattarsi nella speranza di ottenere la fama.
Il sipario si alzava su un vero e proprio uragano di incoerenze: sul palcoscenico vagava una ridda di personaggi senza un perché, alcuni muniti di parasole, altri armati di cerbottana, altri ancora vestiti da fantino. Non emergevano né protagonisti né linee narrative riconoscibili, e la storia procedeva a suon di interminabili spiegoni al telefono, con l’effetto narcotizzante di un barbiturico. Si intuiva che tutto nasceva da un braccialetto maledetto, o forse dal furto di un paio di corna d’alce. Per qualche confuso motivo - forse l’invenzione del forcipe da parte di Chamberlain - una convention di pollicoltori finiva misteriosamente a Jixi, dove tutti sembravano essere preoccupati di un merlo parlante.
Sin dal primo capitolo, Non puoi tornare a casa, e ti spiego perché, troviamo l’impostazione che caratterizzerà tutto il libro. La trama propone un tema caro a Allen, quello dell’uomo solitario che il mondo esterno viene a disturbare, e che ritornerà in Un ritocchino non fa male a nessuno, dove al protagonista suona puntualmente il telefono non appena inizia a farsi la doccia: una troupe hollywoodiana entra in casa del narratore per girare le scene di un film devastandogli letteralmente la quotidianità e le stanze. Nella prefazione Merkin aveva ricordato che la comicità di Allen si fonda spesso sull’accostamento imprevisto di riferimenti alla cultura alta e di umorismo basso (e per questo lo definiva “giullare intellettuale”); è interessante notare che, anche se in Zero Gravity ritroviamo il gusto per la parola improvvisa, che già solo con la sua stranezza fuori contesto genera ilarità (i procioni che irrompono in una recita teatrale, la tassidermia in opposizione all’Actor Studio), così come un continuo citazionismo colto (tra i cui vertici ci sono occhi “lacrimanti come Niobe”), dal quale traspare l’essenza di Allen come homo europeus più che statunitense, quest’opera contiene molte meno battute fulminanti e aforismi memorabili di quelli che ci si aspetterebbe (o almeno, che io mi aspettavo) dal genio dei joke perfetti. Ad essere divertente è il tono, che mischia la quotidianità e assurdo senza soluzione di continuità. La prosa è sempre scorrevole e di piacevole lettura, ma a volte pesa l’assenza di veri e propri momenti topici, di guizzi esplosivi, la cui mancanza rischia di appiattire la scrittura, poco pepata.
Il secondo racconto, Mucca pazza, inizia ad esempio in maniera canonica, tanto da non sembrare comico fino a quando scopriamo che la voce narrante è quella di una vacca. Anche in questo caso, l’umorismo non sta in punchline succinte: è immaginandoci le scene descritte (la mucca che si muove furtiva, l’incrocio di sguardi tra il bovino e la sua vittima umana) che ci viene da ridere, tanto che probabilmente quest’idea, così come quella dell’intrattenitore per galline di Fate la nanna, coscette di pollo, sarebbe più efficace trasposta in immagini, in un film. La natura cinematografica delle trame di Zero Gravity è confermata da un passaggio di Svegliami quando sarà tutto finito nel quale, dopo un paragrafo introduttivo, quello successivo ambientato altrove comincia con l’indicazione: “Stacco sul Club degli Esploratori a Londra”.
Chiariamolo: quello di Allen è un gioco letterario molto ben composto, dove l’ironia regna sovrana. Nei passaggi più felici, questo stile “pacato” funziona alla perfezione: il finto epistolario tra il generale Tso e il ministro Peng, nel quale il primo protesta contro la decisione di intitolare a suo nome il pollo servito da tutti i ristoranti cinesi, è esilarante, così come spassoso è I soldi comprano la felicità, più o meno, con la sua storia di personaggi che perdono e acquistano i terreni e gli alberghi del Monopoli raccontata come se fossero veri fallimenti immobiliari, tra gente che si innamora alla Stazione Nord e sfortunati che finiscono in prigione.
A quanto pare era stata venduta la villa di Mike Tyson: una specie di reggia degna della Xanadu cantata da Coleridge. Vantava diciotto camere degli ospiti, utili - immaginai - per quelle occasioni in cui ti capitano in casa due squadre di baseball senza preavviso. I bagni erano trentotto - a quanto pare Tyson non gradiva bussare alla porta gridando: “Hai finito?”
C’erano sette cucine, una cascata, un imbarcadero, una discoteca, una grande palestra e un’enorme sala cinematografica. La richiesta iniziale era di ventun milioni di banconote del governo statunitense, scesa poi a un più sobrio ammontare di quattro milioni: o il compratore era un ipnotizzatore provetto, o al posto mancava qualcosa di essenziale, come un silo missilistico.
I racconti centrali sono decisamente più solidi. Due aragoste a Manhattan è semplicemente delizioso, perfetto nella sua lunghezza, nell’idea, nella capacità di inserire un tema alleniano (l’ingiustizia cosmica) in maniera leggera in una storia veramente divertente. I capitoli più belli, comunque, sono quelli dove Allen ritrova la capacità di infilare battute ad ogni riga, rafforzando il tono umoristico della storia: è il caso di Dove ho lasciato la bombola dell’ossigeno? e, soprattutto, di Svegliamo quando sarà tutto finito, una parodia della narrativa di viaggio che è forse il miglior pezzo della raccolta.
Un discorso a parte merita l’ultimo racconto, Crescere a Manhattan. Il protagonista, Jerry Sachs, ha molto in comune con Allen: si tratta di un ragazzo ebreo che cresce sognando la Manhattan vista nei film di Hollywood, e chissà se Woody si ritrova in questa descrizione che lui dedica a Sachs: “un misantropo malinconico, ossessionato dal lavoro e cronicamente depresso, e che a suo dire dava troppo importanza al sesso”. La trama ruota attorno ad una coppia sposatasi troppo giovane che pian piano vede il proprio matrimonio naufragare tra le onde della quotidianità. L’apparizione di una ragazza, incarnazione di tutto ciò che Jerry anela, proietta il protagonista nell’esaltante mondo delle storie d’amore appena cominciate, tema che Allen è semplicemente un mago a raccontare. Crescere a Manhattan non è un racconto umoristico, anche se l’ironia garbata dell’autore fa capolino di tanto in tanto, e non mancano scene divertenti come quella al ristorante nella quale Sachs prova a mangiare una lumaca, episodio che è impossibile non immaginare interpretato da Allen stesso. Queste pagine, poste forse non a caso a conclusione del libro, sembrano racchiudere le caratteristiche principali dell’universo alleniano, quelle per cui è amato: l’esplorazione dei rapporti sentimentali, le contraddizioni umane, l’arte come fuga dalla realtà. “Quanto abbiamo bisogno delle nostre illusioni. Se non ci raccontassimo continuamente delle bugie, sarebbe dura arrivare alla fine della giornata”.
Segnalazioni
Quest’anno la scena comica al Fringe di Edimburgo è stata scossa dal caso Jerry Sadowitz, comico controverso il cui show è stato cancellato in seguito alle polemiche dovute (pare, la cosa non è chiarissima) ai suoi contenuti edgy. La giornalista Kate Copstick commenta la vicenda ponendo l’accento sul pericolo che l’ossessione per i safe space degli spettatori precluda l’accettazione delle sfumature, dell’umorismo come strumento di dibattito e in generale delle opinioni contrarie alla propria.
In questo episodio del suo podcast Stories, Cecilia Sala racconta la condizione femminile in Cina, parlando anche delle difficoltà che sta passando la stand-up comedian Yang Li.
La parabola di Bill Cosby.
L’angolo autoreferenziale
In vista delle elezioni del 25 settembre mi sono candidato col Partito Stand-Up!
Ecco i principali manifesti che sicuramente avrete visto affissi nelle vostre città.
Dove vedermi live
Questa sera, lunedì 19 settembre, sarò allo Spank di Milano in compagnia di Giuseppe Ciuffreda nella rassegna organizzata da Luca Anselmi.
Mercoledì 21 al Wipe Out di Paderno Dugnano presento Marco Los e Giordano Folla (con intermezzo di Micol Ronchi)
Giovedì 22 sono al Joy con Davide Spadolà.
Il 29 settembre mi trovate alla Loggia di Melegnano e il 30 alla Birreria Majnoni di Erba per il one man show di Giorgio Magri e l’apertura di Denny Cavalloni.
I primi appuntamenti di ottobre sono mercoledì 5, con lo spettacolo di Valerio Airò al Wipe Out (featuring Andrea Pellizzoni) e sabato 15 alla Birreria Majnoni con quello di Davide Sberna.
Il video alla fine
Dopo uno Stanhope d’annata, il secondo capitolo di “big comedian at the beginning” prevede questo video (datato 1988) di un Louis C.K. giovincello, quando stava ancora lavorando sul suo inconfondibile stile.
Ricordatevi di consigliare Tendenza Groucho a un amico, così grazie al presidenzialismo tra qualche anno governerò l’Italia. Ciao!