Alta tensione. La comicità secondo Hannah Gadsby
Nanette, la stand-up e le storie che raccontiamo
Smetto (e ricomincio) quando voglio
Come già fatto per Louis C.K. e Jimmy Carr, avevo intenzione di dedicare una puntata di Tendenza Groucho ad Hannah Gadsby quando sarebbe venuta in Italia col suo ultimo show, Body of Work. Ma, dopo un rinvio della data dovuta alla frattura della gamba della comedian, lo spettacolo è stato definitivamente annullato perché, come spiega il messaggio della stessa Gadsby riportato sul sito degli Arcimboldi, “Purtroppo con le attuali realtà dei tour il programma delle esibizioni che speravamo non è sostenibile e non saremo in grado di raggiungere tutte le città che avremmo voluto. Faremo del nostro meglio per raggiungere Aalborg, Anversa e Milano nel prossimo tour”.
Siccome però nel frattempo mi sono rivisto un paio di volte i suoi precedenti special, e ritenendo comunque di poterci ricavare spunti interessanti, ho deciso di pubblicare ora le mie riflessioni al riguardo, per aggiornarle se mai in futuro dovesse portare il suo show da queste parti.
Il nome di Gadsby è balzato agli onori della cronaca mondiale nel 2018, con l’uscita su Netflix di Nanette. Registrato alla Sidney Opera House, lo spettacolo è stato accolto in maniera entusiasta dai media e ampiamente commentato sui social, perché è stato interpretato come un punto di svolta nel modo di fare comicità che incrociava tra l’altro alcune tematiche centrali nel dibattito pubblico contemporaneo.
In Nanette, dopo una prima parte abbastanza canonica, Gadsby annuncia di voler abbandonare la stand-up comedy perché non si sente più a suo agio in questo mondo. Ha passato anni, spiega, a fare battute su sé stessa e sul suo essere gay (cresciuta in una nazione, la Tasmania, dove l’omosessualità è stata un crimine fino al 1997); ma è arrivata alla conclusione che il self-deprecating humor, se fatto da chi è in posizione di marginalità, non è umiltà bensì umiliazione: lei si è dovuta “buttar giù” per guadagnarsi il permesso di parlare, per trovare spazio per la sua voce. Ora non lo vuole più fare, anche perché scherzare su determinati avvenimenti della sua vita ha significato proporli in maniera rassicurante per il pubblico. In pratica, è come se Gadsby, ad ogni battuta sulle discriminazioni che ha subito in quanto omosessuale, si sia sentita investita dal compito di alleggerire gli spettatori dal fardello di quanto successo: se lei ci ride sopra, vuol dire che non è così grave.
Nel TedTalk che riporto qui sotto, tra le altre cose, Gadsby spiega in maniera onesta e divertente il percorso che l’ha portata a Nanette: a un certo punto si è resa conto che fino a quel momento aveva raccontato le sue storie, i suoi traumi, togliendo le parti oscure in modo da far ridere gli altri; mentre connetteva gli spettatori con le risate, lei rimaneva profondamente isolata. Ha dunque pensato che la soluzione migliore per lei fosse raccontare in maniera nuova la sua storia, senza camuffare le violenze subite, e per farla ascoltare al più alto numero di persone possibili non ha esitato a “ingannare” gli spettatori dicendo che si trattava di comedy. Qualcuno può giudicare questa consapevolezza cinismo, ma penso che l’aspetto più interessante dell’operazione sia nel contenuto: il suo storytelling, sottolinea Gadsby, non aveva lo scopo di divertire gli spettatori ma di condividere con loro il suo dolore: “Non volevo farli ridere, volevo sconvolgerli”.
E’ giusto volere questo? Non lo so. Ma a dire il vero non so neanche se sia giusto voler far ridere gli spettatori. Perché il comico ci tiene così tanto che il pubblico rida dei temi dei quali tratta? Alla fine, l’arte è un atto egocentrico: l’artista offre la propria visione agli altri nella convinzione che essa sia importante. Questa sua visione può essere l’idea che si debba ridere delle cose, oppure che il dolore dei singoli vada condiviso, o altro ancora, ma è sempre un’opinione personale in cerca di consenso. Giusto o sbagliato è relativo: è il pubblico a stabilire se quella visione vale la pena.
In ogni caso, visto così, Nanette diventa allora più una presa di coscienza personale che un manifesto sulla comicità: con questo show Gadsby non sta abbandonando la stand-up tout court, ma un tipo di umorismo, sta disertando uno specifico ambiente che si accanisce sulle minoranze. La comedian ha deciso consciamente di smettere di fare la comicità che ha fatto fino a quel momento perché ritiene che banalizzi la violenza che ha subito e che non aiuti ad affrontare le cose in maniera corretta.
La denuncia di Gadsby, quindi, non avrebbe dovuto essere contro un intero genere (la comicità) ma contro un sistema produttivo, un'industria, una cultura che propone un certo modo di fare comicità e che è così potente e pervasiva da imporsi anche nelle menti di chi, come Gadsby, è la vittima designata di quell'umorismo. Nanette allora può essere visto come una ribellione alla comicità mainstream che si finge gay friendly e che pretende l’esposizione del trauma a tutti i costi, sempre ridotto a una narrazione rassicurante per lo spettatore medio che può sentirsi a posto con la coscienza perché ride assieme alla comica gay, al disabile, al transgender.
Come sappiamo, Gadsby ha continuato a scrivere e portare in scena show di stand-up comedy, confermando che a dispetto di quello che faceva presagire la sua intenzione non era smettere. Certo, dire: “Lascio la comicità” facendo intendere che fosse TUTTA la comicità il problema è senz’altro un’operazione di marketing furba, che infatti ha pagato moltissimo a livello mediatico.
Nel suo secondo special Netflix, Douglas, datato 2020, ci scherza apertamente: inizia avvisando gli spettatori che sono andati a vederla sperando in un nuovo Nanette che lei non ha più traumi da raccontare. In effetti, questo show ha toni molto più leggeri del primo spettacolo. Pervaso da uno spirito meta-linguistico che conferma Gadsby come una nerd della comicità, Douglas è uno spassoso viaggio tra le differenze di parole tra Australia e USA, assurde chiacchiere in un’area cani, una lezione d’arte che illustra la disparità di genere nella pittura e nella scultura (con tanto di schermo sul quale appaiono quadri e opere, un po’ penalizzato dalla regia televisiva che non sempre fa vedere bene le immagini), un bel pezzo sui novax, e “frecciatine” sul patriarcato. Il tutto scatenando ogni pochi secondi la risata del pubblico grazie ad una tecnica eccelsa che tra le altre cose fa di Gadsby la regina del callback.
Uno dei punti più interessanti nelle analisi di Gadsby riguarda il rapporto tra comicità e tensione. Il passaggio che più mi ha colpito in Nanette è quello nel quale ritorna sull’episodio raccontato all’inizio dello show, di quando un ragazzo la stava per picchiare perché l’aveva scambiata per un uomo che ci provava con la sua ragazza. Il twist che riserva per il finale è la rivelazione che in realtà lui, capito che era lesbica, l’ha picchiata, e l’ha picchiata proprio per quello. È uno shock per lo spettatore e lì Gadsby erompe in “This tension is yours, I am not helping you anymore” che racchiude tutto il senso di quanto ha detto fino a quel momento: la comedian si rifiuta di chiudere con una battuta, smette di fare comicità perché non vuole più allentare la tensione del pubblico dato che pensa che quella tensione (scaturita dalle violenze subite) non debba essere allentata. Ognuno di noi deve fare i conti con quella tensione, ecco cosa vuole Gadsby.
Le rivelazioni dei traumi e delle violenze subite sono ovviamente molto toccanti. Ogni volta che rivedo quel pezzo mi commuovo, al punto che non mi interessa sapere se quella sia stand-up oppure no. Chiamatelo monologo drammatico, chiamatelo come volete, è un bene che esista. A qualche anno di distanza dalla sua uscita credo si possa riconoscere che Nanette è riuscito a mostrare al grande pubblico che la comicità possa essere una forma d’arte complessa e profonda.
Ragionando più a freddo sulla tesi di Gadsby, però, constato di avere qualche dubbio e che aldilà dell’innegabile potenza delle sue parole resti discutibile che la comicità minimizzi i problemi o avalli sempre un punto di vista opprimente delle minoranze.
Tutta la prima parte di Nanette, nella quale l’autrice scherza continuamente sulla propria omosessualità, e buona parte di Douglas (col racconto della scoperta di avere l’autismo e di come ci si sente) è proprio la prova che lo si può fare senza sminuirsi. Quando nel secondo show parla di un abuso verbale subito da un medico, poi, lo fa con tanta leggerezza che verrebbe da obiettare: “Ma come? Non ci hai insegnato che i traumi non vanno smorzati con le battute?”
Alla fine del primo special, la comedian dice una frase che sintetizza perfettamente la questione: la medicina sono le storie, le risate sono il miele con cui addolcire la medicina. Questo significa che non si può dare un giudizio univoco sulle battute, che come ogni strumento assumono un valore a seconda di come le si utilizza: se sono usate per rafforzare la storia per come la si è sempre raccontata, allora la comicità diventa serva del potere oppressivo; ma esse possono invece contribuire a diffondere una narrazione diversa, più inclusiva e politicamente orientata secondo quanto auspichiamo.
Se a livello individuale la soluzione potrebbe dunque essere semplicemente non fare battute sulle proprie ferite aperte e opporsi ai cliché tossici (tenendo però a mente, come detto sopra, che i singoli possono essere influenzati se non addirittura manipolati dallo spirito del tempo), la riflessione di Gadsby sul rapporto tra tensione e joke lascia aperta l’enorme questione dell’effetto sociale della comicità: a prescindere dalla visione che una battuta veicola, il fatto che questa sciolga la tensione significa che sarà sempre distensiva e dunque, alla fine, una valvola di sfogo che disperde le energie che dovrebbero invece essere usate contro il potere? E’ un argomento dibattuto, sin dai tempi dei giullari, gli unici ad avere la licenza di prendere in giro il re, ma il cui status tollerato dal potere (era proprio il sovrano a consentire quella loro libertà) rendeva più ambigua la forza della loro satira. Approfondire qui tali aspetti ci porterebbe però lontano dal focus di questa puntata: facciamo che me lo segno per uno dei prossimi episodi. Mi limito a riproporvi Stand-up politics, nel quale ragionavo sul rapporto tra comicità e politica, e a evidenziare alcune dinamiche che a mio parere emergono dalle stesse opere di Gadbsy: quando la comedian sfotte gli angry white men dicendo agli uomini cisgender risentiti per le sue battute che avrebbero bisogno di una bella dose di cazzi, riversando contro di loro la loro stessa mentalità meschina, dimostra che la comicità può essere uno strumento di distruzione di un’ideologia opprimente (in questo caso la retorica machista); non c’è self-deprecation, al contrario: le battute le danno potere, rafforzano il punto di vista degli esclusi, donando loro un senso e un valore tramite la risata. Rimane però irrisolto un altro aspetto: la comicità è sempre e solo distruttiva? Esiste un modo perché la comicità non si limiti a distruggere il mondo ma contribuisca a costruirne uno nuovo? Oppure quello non è il suo compito? Anche in questo caso, ci sarebbe moltissimo da dire e probabilmente sarà opportuno tornarci sopra. Certamente lo scopo di costruire società più inclusive dovrebbe essere compito della politica, e forse prima di ragionare su come la comicità possa aiutare dovremmo riflettere sul perché oggi sembra che la politica sia tutto tranne che questo.
Tornando al legame tra comicità e tensione, Gadsby lo descrive come un rapporto tossico. Seguendo il suo ragionamento: la battuta è una domanda con una risposta sorprendente, una tensione che viene sciolta dal comedian. Ma è lui stesso ad aver fatto sentire il pubblico teso: in quest’ottica, quella tra comico è il pubblico viene definitiva esplicitamente da Gadsby “una relazione piena di abusi”, che lei è stanca di perpetrare: la comedian non vuole unire attraverso la risata perché essa è comunque generata dalla rabbia (dalla tensione) e la rabbia non è mai costruttiva. Se le battute sono formate da due parti (creazione della tensione e scioglimento), le storie ne richiedono tre: premessa, conflitto, lieto fine. I finali positivi, quelli che Gadsby vorrebbe condividere col pubblico, secondo lei non trovano spazio nella comicità perché non hanno tensione.
Devo dire che per me non è chiarissima la teoria della comedian, per almeno due motivi. Innanzitutto, mi sembra che a volte Gadsby sembri suggerire che il comico, con le sue battute, crea tensione che prima non c’era. Mi pare che un’obiezione sensata sia che il comedian in realtà stia rivelando al pubblico una tensione già esistente (a livello sociale, individuale, ecc.), che ponga l’attenzione degli spettatori su un conflitto già presente, rendendoli consapevoli di quella tensione.
Il secondo motivo che non mi fa aderire del tutto alle pur stimolanti riflessioni della comedian riguarda in generale mantenimento e scioglimento della tensione. Sicuramente affinché ci sia la comicità ci deve essere un conflitto, ma stando alla maggioranza degli studi in materia l’efficacia dell’umorismo si basa proprio nel neutralizzarlo: tanto che se nella mente degli spettatori rimane un residuo di tensione, non scatta la risata, che invece avviene proprio perché il comedian, dopo aver portato il pubblico in un territorio potenzialmente pericoloso, attraverso la punchline lo riporta al sicuro.
Tra l’altro, come abbiamo visto, una delle ragioni per le quali Gadsby annunciava l’abbandono della comicità era il pericolo che le battute togliessero la tensione a tematiche che invece per lei dovevano mantenerla: ma questo assunto implica proprio che i joke conducano al rilassamento!
A ben vedere, la chiusa di una battuta è l’happy ending del racconto. Gadsby ha ragione quando sostiene che “Impari dalla parte della storia sulla quale ti concentri”, ma è discutibile che la battuta ti tenga fermo al trauma e non sia già invece un suo superamento. Come ho avuto modo di osservare nella scorsa puntata di Tendenza Groucho, per scherzare su qualcosa devi averlo elaborato. Capisco che possano esserci casi nei quali il comico sceglie una punchline che perpetra una visione sminuente di sé, una versione stereotipata della minoranza cui appartiene, un giudizio politico che rafforza la classe dominante, perché ha introiettato un’ideologia che lo marginalizza (o anche solo perché non ha riflettuto abbastanza sul proprio materiale), ma qui ritorniamo ad un discorso individuale: per quanto difficile, ciascun comedian deve sviluppare coscienza delle implicazioni di ciò che dice sul palco, scegliendo la sua verità, frutto della sua interpretazione dei fatti (personali e sociali) che racconta.
Dietro alle battute di Gadsby sul fatto che la gente la scambia per un ragazzone quasi certamente si nasconde un periodo più o meno recente di sofferenza o quantomeno di frizione tra lei e gli altri, ma il fatto che ne ora ne parli, e che ne parli con quel tono, dice al pubblico: “Io questa cosa l'ho superata, al punto da scherzarci sopra”. In questa prospettiva il comico, lungi dall’esser immobilizzato nel pantano del trauma, assume addirittura i contorni di una figura che col suo esempio mostra agli altri la strada per elaborare le vicende dolorose. “Si può fare!”, urla brooksianamente.
Segnalazioni
Un punto di vista diverso: in questa intervista Norm Macdonald critica quel tipo di comicità che espone le propri, ed in particolare le proprie malattie. Mettendo in guardia dal personalizzare troppo le questioni di cui si parla (un’operazione che gli sembra sempre essere un tentativo di ottenere empatia), il comedian dice che lui parla degli aspetti universali di sé stesso, ad esempio della paura di morire (che coinvolge tutti) ma senza legare il tema a qualcosa di specifico riguardante lui solo. A una precisa domanda dell’interlocutore, Macdonald afferma che non annuncerebbe mai di esser malato. Ed in effetti, quando pochi mesi fa è morto di cancro, al dolore di amici, colleghi e pubblico si è aggiunta la sorpresa, dato che non aveva detto a nessuno che stesse male.
Sul New York Times Noam Shuster Eliassi parla della sua peculiare storia (raccontata anche in questo bel documentario del New Yorker): quella di una comica cresciuta in una comunità dove israeliani e palestinesi convivono, che si esibisce in arabo, ebraico e inglese, si considera un’attivista per la pace, arrivata in America viene bloccata dal covid e più recentemente è stata coinvolta in un attentato terrorista, sul quale al momento non è ancora riuscita a scrivere battute.
Da Vulture, una riflessione sui video di crowdwork condivisi dai comici, di come i social media influenzino questa moda, di come siano utili ai comedian ma anche dei loro lati negativi e del dibattito che si è aperto al riguardo negli USA.
L’angolo autoreferenziale
Dove vedermi live
Per chi se lo fosse perso nelle date precedenti, venerdì 2 dicembre faccio il mio one man show allo spazio Mansart di Zanica e il 10 dicembre lo porto al Garage Moulinski di Milano. Questa sera, 19 novembre, presento la Monza Comedy Night allo Spazio Rosmini. Mercoledì 23 sarò a Bologna per un open mic assieme a una delegazione di comici meneghini. Sabato 26 prosegue la rassegna in Birreria Majnoni a Erba con Valerio Airò e Andrea Chiappini. Il 30 si chiude novembre col one man show di Antonio Piazza al Wipe Out di Paderno Dugnano (in apertura Fabrizio Corazzini).
Il 1 dicembre torno al Bob Food and More di San Donato Milanese thanks to Greta Cappelletti, la quale aprirà lo show di Mario Raz il 14 dicembre al Wipe Out. Sabato 3 torno al Lato B di Milano per l’open mic. Venerdì 9 dicembre partecipo alla serata resident del Circolo San Luis di Milano, venerdì 16 ospito lo spettacolo di Andrea Saleri (introdotto da Giovanni Romano) alla Birreria Majnoni. Sabato 17 ci sarà l’ultima serata allo Spazio Rosmini e lunedì 19 l’ultima al Garage Moulinski, poi arriva Natale e ci rivediamo l’anno prossimo.
Il video alla fine
Lei è Sofia Gottardi e questo è una parte del suo pezzo dedicato ai social andato in onda su Comedy Central.
Ci si becca tra un mese esatto. Statemi bene!