We live in a political world
Come molti luoghi comuni, anche quello secondo il quale i comici siano tutti di sinistra nasce da un fondo originario di verità, misto a semplificazioni eccessive. E come per molti luoghi comuni, anche in questo caso vale la pena approfondire per trasformare un’affermazione banale in un punto di partenza dal quale far emergere spunti più utili ad analizzare la realtà.
Tra le altre cose, penso che la questione destra-sinistra nella comicità possa essere usata come esempio di una condizione più ampia che riguarda la società nella quale viviamo: la tendenza cioè a inquadrare l’attualità in termini che erano stati buoni fino a poco tempo fa e che oggi, nonostante la situazione sia radicalmente mutata, continuiamo a usare allontanandoci dai fenomeni che vorremmo descrivere.
A scanso di equivoci: non sto dicendo che i concetti di sinistra e destra non hanno più senso, ma che vengono affibiati a persone e idee (anche nella comicità) in modo pigro, cioè per abitudine, senza verificare se effettivamente abbia senso farlo, o addirittura in mala fede, per millantare appartenenze quanto meno discutibili.
Per cominciare, però, vorrei spendere due parole sul rapporto tra politica e arte. È secolare, se non millenaria, la domanda se ci debba essere un nesso tra le due. Le posizioni oscillano tra i poli “Tutta l’arte è politica”, con il correlato di impegno sociale che gli artisti dovrebbero dimostrare, e “Ars gratia artis”, volendo dire con quest’ultimo motto che l’unico fine dell’arte sia l’arte stessa. Da buon marxista, mi sento più vicino al primo enunciato, ma con un importante distinguo. Credo infatti che ogni azione umana influisce in piccola o grande parte sul mondo, ed in questo senso l’arte è uno dei tanti modi coi quali ci relazioniamo agli altri e agiamo nella società. Persino il gesto meno volontariamente orientato in senso politico e quello più inconsapevole non solo derivano da esperienze, tradizioni, convinzioni connotate ideologicamente ma sono anche forieri di una certa maniera di interpretare il mondo e hanno ripercussioni su ciò che ci circonda. In ambito comico ciò è evidente ad esempio nelle battute: la persona che sei determina quello che ti fa ridere. Se ritieni che la religione sia un apparato repressivo, troverai divertente George Carlin; se pensi che i gay siano strane creature dai gusti eccentrici, sarai a tuo agio con le macchiette di molta commedia italiana.
A parziale smentita di quanto detto sinora, bisogna ricordare che in realtà a far scattare la risata è soprattutto la tecnica: una battuta ben scritta potrebbe farti ridere anche se non ne condividi il senso. Intendo però dire che, per quanto riguarda il comedian, la scelta dei propri bersagli racconta (anche) il suo punto di vista sulla società, che i joke perpetuano, mentre per il pubblico, superato il momento meccanico della risata, cercare e approvare un certo tipo di comicità è (anche) un atto di consenso verso i sottotesti di quell’umorismo.
Ritenere che ogni azione umana non possa sfuggire a un suo peso sociale e che quindi anche l’arte e la comicità sottostiano a questa regola non significa però pensare che esse debbano avere un contenuto politico o che il loro obiettivo debba essere veicolare messaggi destinati al dibattito collettivo. Per intenderci: un monologo intimo e personale potrebbe avere un’influenza sociale maggiore di una parodia di un esponente politico, se riuscisse ad illuminare aspetti fondamentali della condizione umana. Non sono inoltre tra quelli che pretendono l’impegno negli show che vado a vedere: se mi fai ridere, l’argomento è quasi del tutto ininfluente. Per questo mal sopporto chi attribuisce alla stand-up comedy funzioni messianiche. Una certa vulgata vorrebbe che tale comicità si differenzi dalle altre (e dall’odiato cabaret) perché tratta di temi “seri”, di massimi sistemi, o addirittura perché espone “la verità” al pubblico. Come ho già scritto e non mi stancherò mai di ribadire, la stand-up comedy può fare tutte queste cose, ma non è quello il suo specifico, che per quanto nebuloso sia è più un fatto di forma (il monologo, l’abolizione della quarta parete…) che di contenuto. Poi certamente la forma influisce sul contenuto (se abolisco la quarte parte ho più possibilità di mettermi a nudo e questo può spingermi a rivelarmi e a parlare del “vero” me), ma non allontaniamoci troppo dal punto, che resta l’assoluta libertà del comico nel proporre il suo materiale.
Mi sento quindi di dire che sì, tutta la comicità è politica, ma solo nel senso che è un atto politico cercare il lato divertente delle cose, che siano la guerra in Afghanistan o la coda alla cassa del supermercato. E lo è perché assumere che le cose che ci succedono, piccole o grandi, possano essere passate al vaglio della comicità è una presa di posizione sull’esistenza umana.
Chiarito il mio punto di vista su arte e politica, riprendiamo il discorso iniziale: i comici sono tutti di sinistra? O, addirittura, è la comicità stessa ad essere di sinistra?
Credo che questa convinzione derivi dal fatto che la comicità ha la capacità di smontare la retorica, di smitizzare i personaggi illustri e ciò ne fa un ottimo strumento di critica al potere. E siccome storicamente il potere si mantiene in vita grazie alla repressione, la catarsi comica che libera possibilità alternative a quella egemone è stata intesa come una forza di emancipazione.
Tutto questo è vero, ma ci sono diversi aspetti che rendono le cose più sfumate.
Innanzitutto, chi decide cosa è il potere? Siamo abituati a dire che la vera satira se la prende coi più forti e che l’accanirsi sulle vittime è sfottò fascistoide, ma questo pensiero non tiene conto del fatto che esistono letture differenti dalle nostre, nelle quali i rapporti di forza sono descritti in altro modo. Per chi è progressista, la definizione di comicità di sinistra come quella che critica il potere si basa su un assunto (il potere è composto da queste istituzioni, questi politici, queste convinzioni) che è dato per scontato ma che è tutt’altro che assoluto, dipendendo come è naturale dalla propria ideologia.
Se non teniamo a mente questo, rischiamo di pensare che chi fa una comicità che noi consideriamo di destra sia coscientemente malvagio, voglia cioè consapevolmente accanirsi su soggetti che oggettivamente sono deboli o positivi. Ma di oggettivo non c’è nulla, e chi critica comicamente quelli che consideriamo i buoni o le idee che riteniamo giuste forse sta solo guardando la società in maniera diversa rispetto a noi.
Quando si parla di comico di destra, generalmente lo si fa per dire che è un comico che non attacca il potere; ma ai suoi occhi, ad esempio, un monologo contro il politicamente corretto è esattamente una critica al pensiero dominante, perché egli ritiene (secondo me sbagliando, ma non è questo il punto) che oggi il mainstream sia dominato dai woke liberal che usano la forza per reprimere chi non la pensa come loro.
A fronte di letture del mondo opposte, il meccanismo comico è lo stesso: sbeffeggiare chi si percepisce come potente, metterne a nudo le contraddizioni.
Non sto cercando di dire che una posizione vale l’altra e che tutti i tipi di comicità debbano piacerci. Sono anzi profondamente convinto che si debba lottare affinché la propria visione del mondo prevalga, così come è importante intervenire nel dibattito pubblico per contrastare la comicità che consideriamo tossica, ma riconoscere nel comico di destra un individuo con opinioni differenti e non un agente del male può aiutare a rendere meno polarizzato l’ambiente, ricostruendo quel senso di collettività la cui assenza mi sembra essere uno dei principali problemi della contemporaneità. Questo non toglie che ci siano persone che invece vogliono semplicemente fare battute sulle minoranze per il gusto di sbeffeggiarle. Tecnicamente, credo che si chiamino stronzi e non meritano ulteriore spazio.
Più interessante è invece il modo in cui si fa comicità sui potenti. Se per prendere di mira Laura Boldrini ti concentri sul suo essere donna (e quindi non sul suo ruolo istituzionale, ma su una caratteristica che non è esclusiva della Boldrini) allora ovviamente perdi ogni valore di critica satirica e scadi nel sessismo. Ma, anche ammettendo che la comicità di destra spesso si riduca proprio all’insulto discriminatorio travestendolo da attacco ai poteri forti, ciò non significa che tale perversione della comicità sia suo appannaggio esclusivo: quante battute sono state dette da sinistra sull’altezza di Berlusconi?
Lo sfottò fisico mi porta a evidenziare un assunto classico della satira che, come accennavo all’inizio della newsletter, la mutazione epocale della nostra società ha reso più ambiguo: se infatti è vero che ridere dei difetti che il potente tende a nascondere presentandosi come superiore è stato uno strumento di resistenza dal basso, oggi che il potere, cercando di mostrarsi alla pari dell’uomo comune, si fa invece vanto delle proprie debolezze (Salvini che prende qualche chilo e lo annuncia sui social, Antonio Razzi che ci marcia sul suo essere freak, Giorgia Meloni che fa sua una canzoncina che dovrebbe sfotterla…) che senso ha scherzare sulle imperfezioni fisiche e caratteriali di chi ci comanda? Non si ottiene forse l’effetto contrario a quanto auspicato, ovvero rafforzare l’idea che il politico vuole trasmettere di sé stesso?
Uno degli errori più frequenti nel commentare la comicità consiste nel basarsi sugli aspetti superficiali; se ad esempio una battuta contiene la parola-trigger “stupro”, ecco scattare l’indignazione perché su certe cose non si scherza o l’accusa di prendere in giro le vittime, quando magari invece la battuta significava il contrario. Un meccanismo analogo a questa incapacità di individuare correttamente il target delle battute avviene per la comicità politica: un comedian che, poniamo, bersaglia Giorgia Meloni apparirà automaticamente di sinistra, e poco importa se per attaccarla fa leva sul fatto che viene pagata molto, sposando quindi il tema dei costi dei parlamentari caro al populismo di destra; quando poi, per contrastare il gentismo, si invoca (per ridere, ovviamente!) l’abolizione del suffragio universale, neanche ci si accorge di trasudare elitismo aristocratico che è tutto tranne che di sinsitra. La verità, temo, è che l’ideologia di destra è molto più diffusa di quanto ci si rende conto anche in ambienti che si considerano di sinistra e la comicità non fa eccezione; diversi comedian, inconsapevolmente, veicolano idee di destra continuando a percepirsi (e, cosa forse più grave, continuando a venire percepiti dal pubblico) come di sinistra, ma in realtà alimentando l’ideologia che pensano di combattere o che non vedono agire anche attraverso di loro. Insomma, non è facile come può sembrare schierare la propria comicità nell’agone politico.
Un altro aspetto che mi pare interessante è che, nella comicità come in politica, il valore dell’essere contro nasconde sempre un’ambiguità.
È diffusa l’idea secondo la quale la sinistra dovrebbe essere contro l’establishment, contro il sistema. Anche in questo caso, se ciò deriva dalla storica avversità progressista per le strutture troppo rigide e se ciò aveva senso in un mondo nel quale le società si fondavano sulla coercizione (maggiore o minore) del singolo in nome della collettività, ora sotto alcuni aspetti il contesto in cui viviamo è cambiato radicalmente, rendendo la questione più problematica: è davvero rivoluzionario essere contro le regole se è lo stesso capitalismo a spingere verso l’assenza di limiti, in nome dell’individualismo consumista? Quando il mantra è il thatcheriano “La società non esiste”, prendersela con lo Stato non fa forse il gioco dei poteri forti? Se trasgredire diventa un altro modo per lasciare libero campo all’egoismo, il comico veramente alternativo non è quello che richiama alla responsabilità nei confronti degli altri?
Associare la comicità all’essere contro è ambivalente, perché da una parte riconosce il suo ruolo nel mettere in dubbio le certezze di un’epoca, dall’altra può spingere il comedian a opporsi “a prescindere”, indipendentemente dal merito delle questioni, rifiutando alcune idee solo perché esse sono condivise dalla maggioranza delle persone. Se la legge è emanazione dell’autorità che si vuole combattere, schierarsi contro le mascherine è di sinistra? E cosa succede quando sono la tolleranza e il rispetto delle diversità ad essere il valore condiviso da bersagliare? Può il comico, in nome del dissenso come antidoto all’omologazione e della divergenza d’opinione come sale della democrazia, assumersi il compito di sbeffeggiare l’inclusività, proponendo battute razziste?
Penso che, tanto per cambiare, non ci sia una risposta univoca. A determinare la valenza di un monologo comico concorre ad esempio il contesto: una ficcante provocazione lanciata ad un auditorio dal vivo che condivide un posizionamento di sinistra può fungere da stimolo a non adagiarsi passivamente sulle proprie posizioni precostituite, ma diventa una banale conferma di stereotipi se recitato di fronte a spettatori di destra. E dato che il pubblico è molto raramente totalmente omogeneo per orientamento politico (a maggior ragione sui social, che annullano appunto il contesto), la stessa esibizione può esser fruita in maniera opposta da due membri della stessa audience seduti magari l’uno accanto all’altro. Il comedian, il cui lavoro è già complicato di suo, deve accettare questa ulteriore difficoltà facendo tutto ciò che è in suo potere per risultare chiaro nei propri intenti, fugando quanti più malintesi possibili.
Appurato che la contestazione va giustificata volta per volta con argomenti e tecniche valide, è innegabile che la comicità si trovi comunque più a suo agio nella pars destruens, efficace com’è a buttar giù le strutture di senso che governano il nostro vivere collettivo. Detta così, parrebbe allora che la comicità non possa essere costruttiva. Ma la distruzione lascia spazi liberi sui quali porre nuove fondamenta: l’atto stesso di rifiutare alcune convenzioni implica l’esistenza di altre forme di pensiero che possono sostituire quelle andate in macerie. Ridere assieme è un potente collante che fa sentire parte di una comunità, e il comedian ha il potere di guidare questa comunità verso un terreno protetto, dove i rapporti interpersonali possono svilupparsi partendo dal rispetto e dalla valorizzazione dell’individualità di ognuno. Se non è politica questa…
L’angolo autoreferenziale
Ho ricominciato a fare open mic, e tanti ne arriveranno da qui in poi. Segnalo in particolare quello al Circolo San Luis Terre e libertà, che si è affermato come uno dei luoghi più vivi per la stand-up comedy meneghina, e quello al Leoncavallo, ogni seconda domenica del mese. Domani, 20 ottobre, sarò al Dr. Stand & Mr. Up al Gerico in Piazza Vetra, mentre il 28 partecipo alla serata organizzata da Matteo Iuliani al Victoria’s Club. Grazie al buon Amedeo Abbate, a novembre farò l’apertura a due comici eccezionali, Daniele Raco (5 novembre) e Giorgio Magri (19 novembre), alla Birreria Majnoni di Erba.
Dove vedermi live
La novità più grossa è che sta per partire una nuova rassegna al Wipe Out di Senago, targata Comici in Cantina e col sottoscritto nel ruolo di organizzatore e presentatore. Per la serata d’esordio, martedì 9 novembre, ci divideremo il palco io e Clara Campi. Una prima occasione per rivederci dal vivo.
Segnalazioni
Show Bees continua a proporre stand-up comedian internazionali in Italia. A luglio sarà la volta di Jimmy Carr.
Pietro Minto ragiona sulla recente ondata d’umorismo nei confronti dei Talibani per evidenziare le problematicità più generali di questo tipo di comicità. Consigliato anche il suo articolo per Studio dedicato a Kim Jong-un, citato nel precedente link.
Jacopo Cirillo, fondatore di Aguilar, una delle prime agenzie ad occuparsi di stand-up in Italia, ha scritto L’animale che ride, un saggio per analizzare le varie forme di umorismo e i contesti deputati alla risata.
Il video alla fine
Quando penso a comedian “politici”, uno dei primi nomi che mi vengono in mente è quello di Jena Friedman, che non nasconde il suo punto di vista ed anzi ne fa il perno deli suoi monologhi. I “comici con una missione” rischiano sempre di sposare la retorica e tradire l’umorismo, ma nel caso di Friedman mi sento di dire che le sue idee politiche alimentano la fiamma della comicità e viceversa.
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